I FUMETTI ITALIANI ERANO I PIÙ VENDUTI DEL MONDO

 

I FUMETTI ITALIANI ERANO I PIÙ VENDUTI DEL MONDO

Negli anni settanta l’Italia era la nazione dove si vendevano più fumetti nel mondo. O almeno, nel mondo occidentale (il Giappone era il primo della classifica anche allora).

C’erano molti settimanali a fumetti, alcuni dei quali vendevano più di mezzo milione di copie. E tantissimi giornalini di seconda fila come questi, che pure se la cavavano bene vendendo sulle 50mila copie.

Si trattava perlopiù di fumetti mediocri, soprattutto quelli dei grandi editori che raggiungevano diffusioni maggiori solo grazie al basso prezzo di copertina. Il pubblico li comprava perché c’erano scarse occasioni di svago.
La televisione pubblica, l’unica esistente, aveva due canali che iniziavano a trasmettere nel tardo pomeriggio: per il resto della giornata c’era il monoscopio fisso.

Tra gli ultimi anni settanta e i primi anni ottanta, i bambini iniziarono a conoscere i cartoni animati giapponesi. I quali, come i fumetti di quel Paese, non avevano alcun intento “educativo”. Del resto non ha senso inserire l’insegnamento nei divertimenti, come già sosteneva il drammaturgo e pensatore Friedrich Schiller alla fine del settecento.
Da noi, però, imperversavano i pedagogisti barbogi, che già all’inizio degli anni quaranta erano provvisoriamente riusciti a far abolire le pericolose nuovolette dei fumetti.
Solo alla fine degli anni settanta il sociologo americano Neil Postman diede il contrordine ai pedagogisti: Ma lasciateli divertire in pace questi bambini!

Anche gli adulti, che seguivano testate vendutissime come “Intrepido”, alla fine preferirono i telefilm americani di migliore fattura rispetto ai fumetti nostrani scritti con lo stampino: le nuove reti commerciali, sorte alla fine degli anni settanta, iniziarono a trasmettere in continuazione i telefilm ignorati nei decenni precedenti dalla televisione di Stato.
In Giappone, invece, varietà e mancanza di imposizioni pedagogiche hanno permesso ai fumetti di vendere milioni e milioni di copie, anche nell’epoca dei tanti canali televisivi.

All’improvviso, nell’Italia dei primi anni ottanta, le edicole si svuotarono di fumetti mentre fino a poco prima ne erano letteralmente tappezzate, e ottimi autori rimasero disoccupati.
Non ci facevano caso i critici del fumetto, che pensavano a qualunque cosa salvo che al fumetto “popolare”. Erano entusiasti per il fiorire delle riviste “d’autore”, senza rendersi conto che erano potute nascere solo grazie alla massa di lettori educati al fumetto negli anni precedenti: ora che non c’era più un diffuso fumetto popolare, quelle riviste non potevano che finire male.

L’America aveva conosciuto una crisi simile, ma ci fu un uomo che reagì: Jim Shooter. Non ascoltando chi ripeteva che il fumetto era stato ucciso dai nuovi media, alla fine degli anni settanta Shooter cambiò le pessime abitudini consolidate e il fumetto tornò ad avere successo. Non solo i fumetti Marvel, ma, per emulazione, anche quelli della Dc Comics.
Naturalmente, dopo che aveva compiuto il miracolo, Shooter fu crocifisso e ancora oggi ci si dimentica di innalzare inni al Salvatore del fumetto americano.

Il boom del fumetto italiano degli anni settanta inizia nei sessanta. Cerco di ricostruirlo esaminando i dati delle agenzie di accertamento delle diffusioni dei giornali.
Queste agenzie sono incaricate di controllare il numero esatto dei giornali venduti dagli editori che ricevono inserzioni pubblicitarie. Quindi non sono mai state utilizzate dalla Bonelli, che tradizionalmente non vuole pagine di pubblicità. Come pure mancano i dati dei piccoli editori, perché non vendevano abbastanza per interessare i pubblicitari. Abbiamo, comunque, diverse testate a fumetti certificate.

Negli anni sessanta l’agenzia preposta a queste indagini era la lad, dalla metà dei settanta l’Ads (che continua a operare ancora oggi). Mentre nei primi anni settanta c’era una grande confusione, con società diverse.
I dati Iad sono conservati in una biblioteca di Torino: bisognerebbe passarci un bel po’ di tempo per trascrivere tutti i dati perché, a differenza della Ads, non faceva schede riassuntive annuali con tutte le testate. Quindi i dati Iad che darò, grazie alla gentilissima collaborazione della direzione della biblioteca, sono limitati e frammentari: aspettiamo che qualcuno faccia il lavoro grosso (magari un laureando per la propria tesi).

Mi sono concentrato soprattutto sul “Corriere dei Piccoli”, che dall’inizio degli anni sessanta comincia a essere meno spocchioso, abbandonando i “raffinati” parafumetti con le rime baciate e pubblicando qualcosa di più digeribile. Per quanto riguarda gli autori italiani, il Corrierino non riuscirà mai a presentare veri disegnatori di fumetti, con l’eccezione di Hugo Pratt.
Mario Uggeri è un caso significativo. Grande disegnatore di fumetti, come si può intuire nei suoi lavori degli anni cinquanta, nel corso degli anni sessanta diventa un accanito (quanto imbarazzante) ricalcatore di fotografie. Se per gli autori italiani c’è poco da fare, i fumetti francofoni aumentano sempre di più nelle pagine del “Corriere dei Piccoli” riuscendo a frenare il calo diffusionale causato dai fumetti in stile americano di “Topolino”.

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Ecco le copie vendute del “Corriere dei Piccoli”. Ciascun dato comprende il secondo semestre di un anno e il primo del successivo.

Corriere dei Piccoli
1962-1963: 272.174
1963-1964: 251.859
1964-1965: 255.514
1965-1966: 273.373
1966-1967: 247.900
1967-1968: 237.990
1968-1969: 238.480
1969-1970: 228.805
1970-1971: 225.014

“Il Giornalino” all’epoca viene venduto solo nelle parrocchie. Il raddoppio e più delle copie nel 1968 è dovuto all’arrivo dei bravi autori transfughi de “Il Vittorioso” in crisi, che ha modificato il nome in “Vitt”.

Il Commissario Spada di Gian Luigi Gonano e Gianni De Luca è il personaggio principale del Giornalino, e uno dei migliori fumetti italiani (altro che l’ermetismo di Crepax e Toppi!). Purtroppo, dopo Spada a De Luca commissioneranno solo fumetti privi di spessore.

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Il Giornalino
1964-1965: 80.328
1965-1966: 73.248
1966-1967: 73.330
1967-1968: 62.522
1968-1969: 159.786
1969-1970: 180.107
1970-1971: 185.488
1971-1972: 186.231

Quanto vendono i supereroi negli anni sessanta? Il settimanale Mondadori di Superman (chiamato Nembo Kid) va benone, il mensile a lui dedicato pure.

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Albi del Falco – Nembo Kid
1964-1965: 113.844

Superalbo Nembo Kid
1964-1965: 98.339

Sfogliando queste vecchie schede della Iad, noto casualmente che il settimanale d’informazione scollacciato e radical chic “Abc” nel 1971 vende ben 317.248 copie. Negli anni successivi, “Panorama” e “L’Espresso” rubarono la formula di “Abc” arrivando a vendere altrettanto e attirando un fottìo di pubblicità grazie a un’impostazione glamour. Così il graficamente grezzo “Abc” finisce per fallire.
In tempi recenti, “L’Espresso” e “Panorama” sono tornati a essere i cloni di “Time Magazine”, togliendo le modelle nude dalle copertine ed eliminando i temi “scabrosi”. Perdendo, di conseguenza, un fracco di copie.

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Arriviamo alla seconda metà degli anni settanta, con i dati più completi che la segreteria della sempre operativa Ads mi ha cortesemente fornito.

Cominciamo con i settimanali.

Albi di Topolino
1976 – 98.217
1977 – 72.880
1978 – 72.456
1979 – 63.113
1980 – 42.734

Questo giornalino con poche pagine vende sempre meno perché, ormai, i lettori si possono permettere pubblicazioni più corpose.

Albo Bliz / Albo Blitz
1978 – 244.098
1979 – 182.702
1980 – 180.605
1981 – 129.453
1982 – 111.379
1983 – 199.810
1984 – 294.837
1985 – 246.798
1986 – 153.667

Le copie calano dal 1980. Dal 1982 si trasforma in un settimanale giornalistico sempre più spinto. Il compianto Riccardo Schicchi, produttore di Moana Pozzi e di altre pornodive italiane, mi raccontava di avere iniziato la carriera lavorando massicciamente per questa pubblicazione.

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Candy Candy

1981 – 128.672
1982 – 129.893
1983 – 101.383
1984 – 74.313
1985 – 43.685

Giornalino per bambine, inizialmente con i fumetti originali giapponesi appositamente colorati, in seguito con materiale italiano.

Corriere dei Ragazzi / Corrier Boy / Boy Music
1976 – 95.713
1977 – 125.221
1978 – 156.133
1979 – 261.553
1980 – 254.548
1981 – 221.839
1982 – 218.198
1983 – 114.137

Il dato del 1976 deve intendersi riferito al “Corriere dei Ragazzi” (già “Corriere dei Piccoli”), perché solo alla fine dell’anno cambia testata in “Corrier Boy”. Dalle 225.000 copie del 1971 certificate dalla Iad (il direttore generale di allora, Mario Oriani, mi ha detto che l’anno dopo arrivò al record di 250.000) in pochi anni scende sotto le centomila. Questo probabilmente perché i migliori personaggi francofoni sono stati sostituiti da fumetti italiani piuttosto insipidi (salvo quelli umoristici, splendidi, ma a un certo punto eliminati). Molti lettori passano ai meno problematici “Lanciostory” e simili.
Il direttore della successiva versione di “Corrier Boy”, Raffaele D’Argenzio, riporta la rivista al successo con fumetti fin troppo popolari, passando così da un eccesso all’altro.

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I ladri Aristocratici di Alfredo Castelli e Ferdinando Tacconi (qui in edizione album francese) pubblicati dal “Corriere dei Ragazzi”.

La sensuale pellerossa Swea di Raffaele D’Argenzio e Nadir Quinto fa da ponte con il successivo “Corrier Boy”.

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Corriere dei Piccoli

1976 – 80.032
1977 – 75.594
1978 – 128.888
1979 – 108.601
1980 – 68.350
1981 – 68.701
1982 – 98.127
1983 – 108.289
1984 – 139.045
1985 – 153.777
1986 – 153.487

Questo giornalino, rinato da una costola del “Corriere dei Ragazzi”, cresce diffusionalmente pian piano. Nel 1980 c’è una flessione, ma dal 1982 avviene un recupero: cosa pubblica in quegli anni? Boh. Successivamente le vendite crollano.

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Il Giornalino

1976 – 135.620
1977 – 159.794
1978 – 169.250
1979 – 188.216
1980 – 182.747
1981 – 170.114
1982 – 172.871
1983 – 194.274
1984 – 210.535
1985 – 225.276
1986 – 209.775

Nel 1980 c’è una flessione del Giornalino, ma nel 1983 (in contemporanea con il concorrente “Corriere dei Piccoli”) avviene una nettissima risalita, della quale pure ignoro le ragioni. Anche qui, dopo, la flessione diventa continua.

Il Monello
1976 – 482.242!
1977 – 437.883
1978 – 402.474
1979 – 405.273
1980 – 366.286
1981 – 303.593
1982 – 280.632
1983 – 253.227
1984 – 231.992
1985 – 193.029
1986 – 150.786

Il Monello sopra le 400 mila copie: oggi un sogno irrealizzabile per una pubblicazione a fumetti!
Il settimanale della Universo perde copie a causa dei molti cloni nati a metà anni settanta: “Corrier Boy”, “Albo Bliz”, “Lanciostory”, “Skorpio” e altri ancora. Il vero declino inizia nel 1980.

Intrepido
1976 – 587.171!
1977 – 540.376
1978 – 489.347
1979 – 472.303
1980 – 405.027
1981 – 332.738
1982 – 328.969
1983 – 301.710
1984 – 307.050
1985 – 276.098
1986 – 226.455

“Intrepido” è il settimanale a fumetti più venduto dopo Topolino. Anche questo periodico della Universo perde copie a causa dei cloni nati a metà anni Settanta. Il netto declino comincia nel 1980.
Le cose peggiorarono notevolmente quando, per avvantaggiarsi della legge Spadolini che dava la carta gratis alle testate giornalistiche, Intrepido e Il Monello aumentarono a dismisura i redazionali (quando avevo iniziato a curarlo io, nel 1992, vendeva ormai 20mila copie scarse).

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In ogni numero di “Intrepido” c’è una illustrazione del grande Walter Molino.

Topolino
1976 – 750.482!
1977 – 692.962
1978 – 630.326
1979 – 632.020
1980 – 540.550
1981 – 504.246
1982 – 499.804
1983 – 496.977
1984 – 496.746
1985 – 461.270
1986 – 482.996

I cartoni animati giapponesi (Goldrake arriva in Italia il 4 aprile 1978) cambiano i gusti dei piccoli lettori e Topolino ne subisce le conseguenze.

Vediamo ora i mensili a fumetti.

Almanacco di Topolino / Mega Almanacco
1976 – 266.204
1977 – 238.393
1978 – 238.664
1979 – 224.026
1980 – 166.431
1981 – 138.806
1982 – 108.414
1983 – 81.844
1984 – 84.339
1985 – 176.980
1986 – 176.113

Una buona diffusione fino al 1980, quando per l’Almanacco inizia il declino.

Corto Maltese
1986 – 31.320

La riduzione del formato di Linus, avvenuta nel gennaio 1979, trova i consensi del pubblico.

Linus
1977 – 62.985
1978 – 56.449
1979 – 70.762
1980 – 69.141
1981 – 69.529
1982 – 53.823
1983 – 51.090
1984 – 64.547
1985 – 62.135
1986 – 60.870

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Un’idea della crisi del 1980 può essere data ancora meglio dal numero delle pubblicazioni a fumetti che chiudono i battenti, a partire da “Boy Music” (ex “Corrier Boy”).
Se non fossi pigro, sfoglierei i numeri della rivista “If”, che ho nell’armadio alle mie spalle, per contare le testate defunte negli elenchi che presentava trimestralmente. Decine di albi a fumetti che non comparivano nelle certificazioni Iad e Ads.

In questo periodo entrano in crisi irreversibile o chiudono definitivamente case editrici medie come l’Editoriale Corno (la mia preferita) e l’Editrice Cenisio. Altre, come Dardo, Bianconi/Metro, Edifumetto ed Ediperiodici, subiscono forti ridimensionamenti dai quali non si riavranno più.

 


QUANDO È NATO IL FUMETTO NON SI SA

Un fumetto, per essere definito tale, deve rappresentare un’azione in una sequenza di vignette e deve essere fornito di dialoghi all’interno delle nuvolette. Da secoli abbiamo esempi separati con l’uno o l’altro elemento, ma solo in tempi relativamente recenti questi si sono saldati dando vita, appunto, al fumetto. Vediamo come sono andate le cose.

Gli illustratori si sono spesso serviti della vignetta singola accompagnata da un testo. A volte, il testo corrispondeva ai dialoghi dei personaggi rappresentati. In questi casi, veniva scritto in un “contenitore” all’interno dell’immagine.

QUANDO È NATO IL FUMETTO NON SI SA

“Certo che è bella, per Giove!”, testo in greco all’interno di un cartiglio (mosaico del primo secolo avanti Cristo)

 

All’inizio questo spazio per il testo era a forma di cartiglio, cioè di una pergamena srotolata.

QUANDO È NATO IL FUMETTO NON SI SA

Cartigli (“fogli” srotolati con all’interno il dialogo del personaggio rappresentato) in una illustrazione del 1498

 

In seguito, un angolo del cartiglio è stato rivolto verso la bocca del personaggio che parla.

Re Luigi XIII e il cardinale Richelieu in una vignetta di inizio Seicento

 

Nel corso dei secoli, la pergamena si è lentamente smussata trasformandosi nella nuvoletta (o balloon) che conosciamo oggi.

QUANDO È NATO IL FUMETTO NON SI SA

In questa vignetta del 1770 il cartiglio è ormai irriconoscibile: siamo arrivati al balloon

 

In alternativa al cartiglio, con l’utilizzo del tabacco, arrivò la nuvoletta di fumo (da qui la parola italiana “fumetto”), che però non ebbe particolare successo.
Dal 1940 circa verrà usata solo per indicare i pensieri.

Nuvoletta di fumo al posto del cartiglio del 1805, in una illustrazione di James Gillray sui viaggi di Gulliver

 

Oltre alla vignetta singola, con o senza cartigli, i disegnatori avevano altre modalità espressive, come la rappresentazione di una storiella attraverso una semplice sequenza di vignette, a volte accompagnate da didascalie. Stranamente, come abbiamo detto, per secoli i disegnatori non hanno mai collegato la sequenza delle vignette con le nuvolette, se non in casi sporadici e privi di sviluppi.

Lo svizzero Rodolphe Töpffer (1799-1846) è stato l’autore che ha usato con maggiore consapevolezza quella che in futuro sarebbe stata definita tecnica fumettistica (sia pure con dialoghi privi di nuvolette).

QUANDO È NATO IL FUMETTO NON SI SA

Töpffer, il precursore del fumetto

 

Tra i precursori, un autore che, sia pure involontariamente, ha contribuito a porre le basi della nascita del fumetto c’è il tedesco Wilhelm Busch (1832-1908). Disegnatore, scrittore e poeta di valore, nel 1865 Busch crea Max e Moritz. Una coppia di bambini terribili che ne combinano di tutti i colori, in sequenze di vignette accompagnate da didascalie.

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Il successo di Max e Moritz è stato fenomenale. Il libro, continuamente ristampato fino al 1963, viene amato da generazioni di tedeschi. Adolf Hitler lo teneva sempre sul comodino: solo i cartoni animati di Topolino gli piacevano di più (e poi dicono che i fumetti non fanno male!).

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Gli scherzi terribili di Max e Moritz

 

La coppia di Max e Moritz in Germania è talmente “iconica” da essere stata utilizzata recentemente per presentare un’inchiesta sull’integrazione degli immigrati.

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Prima di arrivare alla nascita definitiva del fumetto, dobbiamo considerare le riviste satiriche, come “Puck”, che escono negli Stati Uniti durante l’ottocento. Vi lavorano artisti del calibro di Richard F. Outcalt e Frederick Burr Opper, i quali saranno tra i primi autori di fumetti.

Qui sotto una copertina di “Puck” disegnata da Opper, nella quale lo spilungone Zio Sam (gli Stati Uniti) battibecca con il grasso John Bull (la Gran Bretagna).

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Nell’ultimo decennio dell’ottocento, l’editore del “New York Journal”, William Randolph Hearst, e l’editore del “New York World”, Joseph Pulitzer (che darà il nome al famoso premio giornalistico), si domandano come sfruttare la nuova possibilità di stampare a colori gli inserti domenicali dei loro quotidiani. All’inizio provano a presentare le immagini di quadri famosi, ma il pubblico non ne sembra entusiasta.

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William Randolph Hearst, il primo tycoon dei media che ha cercato di imporsi come politico: senza successo

 

Hearst era un magnate della carta stampata, noto ancora oggi per il film “Quarto potere”, dove Orson Wells lo ritrae in maniera provocatoria. In effetti Hearst era un personaggio discutibile. Per esempio, attraverso una campagna di stampa contribuì a trascinare gli Stati Uniti in guerra contro la Spagna per rendere indipendente Cuba, l’ultima sua colonia americana.

Ecco un’immagine pubblicata dai quotidiani di Hearst per far ribollire il sangue dei propri lettori e prepararli così alla guerra: la polizia spagnola denuda una donna americana per cercarle addosso messaggi diretti ai rivoltosi cubani.

A un certo punto, nell’inserto domenicale a colori del proprio quotidiano, Hearst decide di pubblicare le vignette umoristiche. Altri giornali hanno la stessa idea, in particolare il “New York World” di Pulitzer. I disegnatori ingaggiati provengono da riviste satiriche come “Puck”, che in quel momento sono molto popolari.

In questi nuovi inserti domenicali, dal 1895 il disegnatore Richard Outcault presenta le tavole di un ragazzino dei bassifondi vestito di giallo: Mickey Dugan detto Yellow Kid, il ragazzino giallo. Per molto tempo si è ritenuto, a torto, che fosse proprio Yellow Kid il primo fumetto continuativo (tanto da dare il nome al premio della manifestazione fumettistica di Lucca). Invece non siamo ancora arrivati al fumetto vero e proprio, perché il personaggio viene presentato in grandi vignette con testi sparsi. Una tecnica vecchia di secoli.

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Nel 1897, il direttore della sezione a fumetti di Hearst, Rudolph Block, contatta un altro autore destinato a diventare celebre. Si tratta di Rudolph Dirks, un disegnatore nato in Germania. Block commissiona a Dirks un vero e proprio plagio dei Max e Moritz di Wilhelm Busch. (O forse di Peter e Paul, un’altra coppia di ragazzini ideata sempre da Busch per cavalcare il successo di Max e Moritz).

L’idea originaria potrebbe essere dello stesso Hearst, che segue da vicino il supplemento domenicale e i fumetti che vi verranno via via pubblicati (l’ultimo che approverà prima della morte sarà Beetle Bailey di Mort Walker), ed avendo frequentato le scuole in Germania di certo conosce Max e Moritz.
Comunque, le prime tavole di The Katzenjammer Kids (che da noi diventeranno Bibì e Bibò), pur essendo realizzate con una sequenza di vignette, sono ancora prive di nuvolette. Quindi neppure loro sono veri fumetti.

QUANDO È NATO IL FUMETTO NON SI SA

La prima tavola di Bibì e Bibò

 

Il look dei due piccoli immigrati tedeschi cambia nel tempo per diventare quello a noi noto. Alla fine compaiono anche le nuvolette, facendo di Bibì e Bibò una vera serie a fumetti: forse è stata la sequenza delle vignette, necessaria per mostrare gli scherzi delle due piccole pesti, a costringere Dirks a utilizzarle con continuità.

QUANDO È NATO IL FUMETTO NON SI SA
Quando è accaduto esattamente? Le copie superstiti dei supplementi domenicali di fine ottocento sono rare e disperse. Credo che nessuno le abbia viste tutte.

Un altro autore da segnalare tra i primi creatori di fumetti è Frederick Burr Opper, del quale abbiamo già visto una copertina per “Puck”. Si tratta dell’ideatore di Happy Hooligan, noto da noi con il nome di Fortunello.

QUANDO È NATO IL FUMETTO NON SI SA
Fortunello, pubblicato in Italia dal Corriere dei Piccoli, è stato portato in teatro dal grande Ettore Petrolini.

Nei primi anni del novecento la tecnica del fumetto è ormai ben distinta dalla produzione tradizionale degli illustratori umoristici, diventando un genere a parte.

(Alcuni sostengono che le sequenze di vignette senza nuvolette siano già fumetti. No, non lo sono propriamente. Phantom non è un supereroe perché è uscito alcuni anni prima di Superman, mentre Batman lo è per convenzione perché uscito dopo Superman. Lo stesso vale per le sequenze di vignette senza nuvolotte: prima del fumetto non erano fumetti, dopo la nascita del fumetto lo diventano per convenzione).

È giusto chiedersi chi sia stato il responsabile della definitiva creazione del fumetto, che unisce la sequenza delle vignette alle nuvolette. L’autore Dirks? Il direttore Block? L’editore Hearst? Tutti e tre sono legati in un modo o nell’altro alla Germania e, quindi, conoscitori delle opere di Busch. Da quale anno il fumetto ha cominciato a essere pubblicato senza interruzione?

Insomma, la domanda chiave è: chi è stato il primo a pubblicare fumetti definitivi (cioè composti da sequenze di vignette più nuvolette) in maniera permanente inducendo gli altri a imitarlo? Credo che, al momento, nessuno sappia rispondere con certezza.

Sarebbe auspicabile che un editore ristampasse tutte le prime sezioni a fumetti domenicali: essendo formate da sole 4 pagine, un volume con un’annata del “New York Journal” ne avrebbe 208.
Forse solo così potremo scoprire le autentiche origini del fumetto.

 

 

LA PIANURA PADANA SOMMERSA DOPO L’IMPERO

Sin da bambino mi è sempre piaciuto indagare sulle origini dei nomi delle città. Il toponimo per il quale ho speso più energie mentali è quello di Origgio, paese a una ventina di chilometri da Milano nel quale sono cresciuto.
Il nome più antico di Origgio, trovato in un documento risalente a poco dopo la morte di Carlo Magno, è Oleoductus.

 

LA PIANURA PADANA SOMMERSA DOPO L’IMPERO

 

Oleoductus era un canale collegato all’Olona?

Fino a oggi ci si è limitati a dire che Oloeductus non può indicare l’esistenza del canale che comunque la parola evoca (-ductus), e che sembra rimandare agli ulivi (oleo-) anche se è difficile che vi crescessero dato il clima e il tipo di terreno.
Invece secondo me Oleoductus vuol dire proprio “canale dell’Olona” o “canale del grande fiume” dato che ol- in celtico significava, appunto, grande fiume. In Lombardia abbiamo, oltre all’Olona, il fiume Oglio (l’antico Ollius, chiamato anche Olleum, Oleo e in età tarda Ogium).

Il nome Oleductus seguì forse il destino della città confinante Solomnum, che divenne Saronno a causa del rotacismo, la trasformazione della “elle” intervocalica in “erre”. Un fenomeno tipico della zona. Così la Ol- iniziale di Oleoductus divenne Or-, con la semplificazione della parte restante del nome.
Infatti la grafia dell’antico nome di Origgio è cambiata continuamente, diventando Udulucto nel 1161, finché in un documento del 1179 troviamo Udrugium, nome che attesta l’avvenuto rotacismo.

Torniamo all’Olona. Milano nell’antichità si chiamava Mediolanum, nome che a mio parere è formato dall’evidente unione delle parole Medio Olanum e significa “nel mezzo dell’Olona”. La città sorge a metà strada del corso del fiume Olona, che parte dalle montagne lombarde per sfociare nel Po.
Se proprio vogliamo essere pignoli, dobbiamo ammettere che furono i romani a spostare di un poco il corso dell’Olona per farlo arrivare a Milano, ma Mediolanum, in origine, poteva benissimo indicare tutta la zona, non solo il centro abitato.

Sarebbe forse più utile soffermarsi ulteriormente sull’etimologia della grande città di Milano, ma per me è così ovvia (anche se la mia ipotesi non è affatto condivisa dagli studiosi) che la lascio subito perdere per l’etimologia della minuscola Origgio.

Probabilmente all’inizio non esisteva un vero e proprio villaggio chiamato Oleoductus, questo doveva essere solo il nome del canale che scorreva vicino ai luoghi dove sarebbe sorto il paese. Il nome Oleoductus indicava il canale e in seguito la zona che attraversava.

Perché scavare un canale a Origgio? All’inizio ho pensato, sbagliando (come vedremo più avanti), che il canale servisse alle chiatte per portare la legna dei boschi a Milano, quando era una importante città romana e per un certo periodo capitale dell’Impero. La legna era l’unico combustibile usato per cuocere il cibo, per riscaldarsi in inverno e per far funzionare le terme (all’epoca numerose), quindi alla grande città ne serviva sempre parecchia.

Il canale adesso dove si trova? Difficile che un corso d’acqua sparisca da un millennio all’altro.
In realtà, un canale che attraversa i confini di Origgio e che sbocca nel fiume Olona c’è davvero. Si tratta dell’incalanamento del torrente Bozzente, ma questo è stato scavato tra il Settecento e il Novecento, quindi poco tempo fa.
Per venire a capo della faccenda occorre fare una disgressione.

 

La Pianura Padana bonificata tornò a impaludarsi

Durante la preistoria la Pianura Padana era in diverse parti paludosa e probabilmente più ricca di laghi di quanto sia oggi. A trasformare l’ambiente per ricavare terre da coltivare, oltre che per portare l’acqua nelle città, ci pensarono gli etruschi (che arrivarono prima dei celti) e soprattutto i romani.
I romani, grandi ingegneri, scavarono senza problemi canali, modificarono corsi d’acqua eccetera. Attività necessaria anche per il continuo aumento della popolazione.

Secoli dopo, all’epoca delle invasioni germaniche dell’Impero romano, la popolazione era scesa drasticamente, e tutta questa acqua non era più necessaria alle campagne, ormai spopolate, e alle città ridotte a villaggi. Così, forse anche per un declino delle competenze tecniche e della gestione dei lavori pubblici, la manutenzione venne trascurata. Un fatto che in alcuni luoghi provocò l’apocalisse, in particolare nel Veneto, dove tutte le acque della Pianura Padana sfociano nel Mare Adriatico.

Nell’anno 589, quindi più di un secolo dopo la fine dell’Impero romano d’Occidente, la rotta della Cucca sommerse il Veneto, cambiando definitivamente il corso dell’Adige e di altri grandi fiumi. E allungando di decine di chilometri il delta del Po con le terre strappate all’intera regione.

LA PIANURA PADANA SOMMERSA DALLE ACQUE DOPO L'IMPERO

Si notino i cambiamenti dei corsi dei fiumi veneti e l’aumento del terreno emerso sul delta del Po, in verde chiaro, causati dalla rotta della Cucca (da Wikipedia)

 

Di quegli anni oscuri poco ci è stato tramandato, quindi non sappiamo bene cosa sia successo in tutta la Pianura Padana.
Un esempio poco chiaro è costituito dal grande Lago Gerundo, posto tra Milano e Cremona, che è all’origine della leggenda del Biscione, il mostro a forma di serpente diventato simbolo di Milano.

Prosciugato nell’antichità, tanto che i romani vi costruirono una strada all’interno, il Gerundo tornò ad allagarsi almeno in parte dopo la caduta di Roma, per essere definitivamente bonificato nel medioevo. Queste sono solo ipotesi, perché dati certi non ne abbiamo.

LA PIANURA PADANA SOMMERSA DALLE ACQUE DOPO L'IMPERO

Un grande lago tra Milano e Cremona? (Da Wikipedia)

 

La zona di Milano, in particolare, è ricchissima d’acqua. Ogni tanto sui giornali leggo del pericolo di infiltrazioni d’acqua nelle gallerie della metropolitana e le ipotesi che si fanno per scongiurarle, come la creazione di un paio di improbabili laghi intorno alla metropoli.

Nell’antichità si risolse il problema in maniera utile scavando numerosi canali, tanto da far sembrare la città, soprattutto quando divenne capitale dell’Impero romano, una specie di Venezia ante litteram. I fiumi vennero deviati e all’interno di Milano venne costruito un porto fluviale collegato con il Po.

Con le invasioni barbariche molti canali di Milano si interrarono e nel medioevo, con il nuovo aumento della popolazione, furono man mano ricostruiti.
Fino agli anni trenta del Novecento la città recuperò, in una certa misura, “l’atmosfera veneziana”, andata di nuovo persa con la copertura dei navigli, effettuata per favorire il traffico automobilistico. Rimangono scoperti solo alcuni tratti in zone abbastanza periferiche, note oggi per la “movida” cittadina.

Navigli di Milano interrati, coperti, prosciugati e ancora attivi (da Wikipedia)

 

Tutti questi esempi sono utili per spiegare un concetto: gli antichi Romani fecero numerose canalizzazioni e altri lavori idraulici per sistemare le abbondanti acque della Pianura Padana. Sia per rendere sicure le case dalle inondazioni, sia per portare l’acqua nei campi coltivati e nelle città. Non dimentichiamo che nei fiumi venivano fatte viaggiare le merci, un sistema meno costoso del trasporto sui carri.

Alla fine dell’Impero romano decadde la manutenzione di queste opere, che una a una “saltarono” provocando alluvioni e impaludamenti. Il problema però era relativo, perché in quel periodo la popolazione era calata enormemente e quindi qualche terra all’asciutto da coltivare c’era sempre.

Con la fine del medioevo la popolazione tornò ad aumentare e così si resero nuovamente necessari i lavori per gestire le acque: vennero costruite chiuse e scavati canali. Lo stesso Leonardo Da Vinci venne assunto da Ludovico il Moro soprattutto come ingegnere delle opere idrauliche.

 

Un nuovo canale al posto di un canale interrato

Chiarito questo, torniamo a Origgio.
Dal Seicento, e in particolare dal Settecento al Novecento, il corso del torrente Bozzente è stato via via modificato per evitare le periodiche inondazioni che colpivano Origgio.

Il Bozzente, che all’inizio segue un corso scavato naturalmente nel terreno, a Origgio perdeva il tracciato su cui scorrere e quindi a quel punto le acque andavano ovunque. Si potrebbe pensare che la fine dell’alveo sia dovuta al fatto che nell’antichità più remota qui ci fosse un laghetto o almeno una palude.

Guardando il piccolo Bozzente di oggi ci pare strano che potesse provocare simili inondazioni, ma bisogna tenere presente che durante le grandi piene le sue acque straripavano già a monte unendosi a quelle di altri corsi d’acqua per poi trattenersi nella piana origgese.

Al giorno d’oggi il tratto origgese del torrente è stato canalizzato: non ha più il percorso indefinito originario, quello che provocava allagamenti fino al centro abitato di cui parlano le vecchie cronache.

Come abbiamo detto, il sistema idrico della Pianura Padana, e in particolare dell’area milanese, ha subito un forte decadimento dopo la caduta dell’Impero romano. E allora, se il Bozzente pochi secoli fa inondava il territorio costringendo le autorità a canalizzarlo, nulla di più logico che anche in epoca romana fosse stata canalizzato per gli stessi motivi.

Più probabilmente il canale era stato scavato dagli antichi romani per liberare il terreno dall’acqua stagnante accumulatasi nel corso del tempo, in modo da destinarlo per la prima volta alla coltivazione e alle abitazioni dei contadini. Una tipo di bonifica che veniva eseguita in tante zone della Pianura Padana.

Quindi poteva benissimo esistere un “oleoductus”, ovvero un’incanalazione del Bozzente fino al fiume Olona. Collocato più o meno nello stesso tratto dell’odierno canale del Bozzente tra Origgio a Rho, alle porte di Milano, dove si immette nell’Olona.
Anzi, direi che doveva esserci, in coerenza con la sistemazione delle acque fatta dagli antichi romani soprattutto nella zona intorno a Milano.

Per questi motivi credo che Oleoductus/Origgio prenda il nome da un canale che sfociava nel fiume Olona, esistente al tempo degli antichi romani. In seguito interrato a causa della mancata manutenzione, tipica dell’età successiva alla caduta dell’Impero anche in città importanti come Milano, e nuovamente scavato in tempi recenti.

Le acque del torrente Bozzente sono state incanalate da Origgio fino a Rho, dove si congiungono al fiume Olona. Anche nell’antichità era stato scavato un canale analogo per evitare che durante le piene il Bozzente, non avendo qui un corso definito, allagasse le zone circostanti? (Da Wikipedia)

 

Questa mia ipotesi si basa su due considerazioni.
1) Ci deve essere una relazione tra il primo nome di Origgio, che rimanda all’esistenza di un canale, al fatto che un canale oggi attraversi effettivamente il paese.
2) In generale, allo stesso problema si risponde con la stessa soluzione. Come in epoca moderna si sono eliminati gli allagamenti del Bozzente scavando un canale, per risolvere il medesimo problema la stessa cosa deve essere avvenuta nell’antichità.

Credo che l’antico canale non diede solo il nome a Origgio, ma rese possibile la sua stessa fondazione. Probabilmente solo quando le acque stagnanti accumulatesi nella zona furono fatte defluire attraverso il canale si è potuto formare il primo nucleo urbano.
Questo spiegherebbe il fatto singolare di un paese chiamato con il nome di un canale. Non sarebbe stato così se il villaggio fosse stato preesistente, e quindi già con un nome proprio.

FAUSTO E IAIO: SPIRALE DI SANGUE

Avete mai sentito parlare di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci? Questa storia riguarda alcuni sanguinosi fatti milanesi avvenuti immediatamente dopo il 16 marzo 1978, il giorno in cui i terroristi delle Brigate Rosse rapirono Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana.
Ritorno con la memoria a quel periodo, che ho vissuto personalmente.



Abitando nell’Alto Milanese, per andare a Milano prendo il treno con Davide. Lui frequenta la mia stessa scuola ed è compagno di classe di Fausto Tinelli. Nel 1978 regna ancora l’impegno politico. Io faccio parte del gruppo di Democrazia Proletaria, mentre Fausto si definisce “anarco-comunista”. Io e Fausto a volte litighiamo per questioni di poco conto, ma più spesso collaboriamo. È l’unico anarchico costruttivo che conosco, gli altri preferiscono farsi i fatti propri.
Una sera, due giorni dopo il rapimento di Moro, Fausto e il suo inseparabile amico Lorenzo Iannucci, detto Iaio, vengono uccisi da alcuni proiettili sparati da sconosciuti.

Qualche sera dopo, mentre faccio indagini “alternative” per la mia organizzazione politica, entro nella segreteria ormai vuota del liceo per trascrivere i dati di alcuni studenti considerati “sospetti”, anche se mi sembra una perdita di tempo. All’uscita, il mio accompagnatore e io scorgiamo un paio di persone appostate nei luoghi bui della strada. Pensiamo ad agenti di polizia in borghese messi lì di guardia, data la situazione politica incandescente.

Poi vediamo passare il nostro tram e corriamo, ma quando arriviamo alla fermata è già ripartito. Siamo esattamente davanti al cinema Ambrosiano, che oggi è diventato la discoteca Rolling Stone. Corriamo ancora fiancheggiando il tram per raggiungerlo alla vicina fermata successiva. Quando saliamo, notiamo un foro su un finestrino del tram e un altro su quello opposto. I passeggeri, agitatissimi, pensano a una sassata. Più probabilmente, data la forma perfetta e parallela dei piccoli fori di entrata e di uscita nei due finestrini opposti, si è trattato di un proiettile.

Qualcuno deve avere creduto che fossimo saliti alla prima fermata non vedendoci rimanere a terra, perché abbiamo rincorso il tram dalla fiancata opposta rispetto alla posizione del presunto sparatore. Forse con quel proiettile voleva lanciarci un messaggio, o cercare il morto: era stato sparato verso la pedana d’ingresso del tram dove saremmo saliti. Il giorno dopo, passando nello stesso luogo, in un parcheggio di taxi sento smadonnare un tassista che ha trovato il proiettile conficcato nella propria auto.

Il padre di una militante di Lotta continua viene a scuola per chiedere aiuto a noi studenti “politicizzati”. Il giorno prima sua figlia era stata inseguita da un’auto, dal finestrino della quale è spuntata una pistola che però non era riuscita a sparare. All’incontro c’è anche il principale responsabile di Lotta Continua (a Milano una parte di questa organizzazione non si era sciolta due anni prima come nel resto d’Italia), che conferma il fatto perché stava accompagnando la ragazza nel momento dell’attentato. Un po’ pateticamente il padre ci chiede di scortarla per qualche giorno, non potendo andare dalla polizia perché, dice, è un personaggio in vista di una banca.

Alcune settimane dopo, Davide, il compagno di classe di Fausto con il quale prendevo il treno per Milano, viene investito e ucciso da un pirata della strada che, a quanto mi risulta, è rimasto sconosciuto. Davide era il maggiore rappresentante di un altro gruppo politico della scuola, il Movimento lavoratori per il socialismo, per il quale indagava pure lui sulla morte di Fausto e Iaio.

Nessuno ha mai scritto, nei vari libri su Fausto e Iaio, di questi tre presunti attentati: nei confronti miei e del mio accompagnatore, della mia compagna di scuola e dell’altro compagno con il quale prendevo il treno, l’unico purtroppo riuscito.
In questi libri si è parlato solo del caso di un giornalista dell’Unità, Mario Brutto. Il giornalista seguiva con molto impegno le indagini su Fausto e Iaio finché gli hanno sparato tre colpi, mancandolo, poi l’auto dei killer l’ha inseguito fino a investirlo e ucciderlo.
In tutto, quattro attentati o presunti tali. Due dei quali riusciti. Senza contare quello a Fausto e Iaio.

Un funzionario della polizia viene nell’ufficio della preside per sentire noi studenti, ma non gli diamo alcun elemento utile perché vogliamo continuare a fare le indagini per conto nostro e diffidiamo degli organismi dello Stato. Il funzionario cerca di incoraggiarci dicendo che Fausto e Iaio erano due “bravi ragazzi” e che non si drogavano (notizia a noi già pervenuta per vie traverse subito dopo l’autopsia).

Che i due giovani siano stati uccisi perché avevano cercato di inserirsi nel traffico della droga è invece l’incredibile conclusione del responsabile del servizio d’ordine di Democrazia Proletaria, alla fine delle nostre indagini “alternative”… Fermo restando, aggiunge, che avremmo dovuto continuare ad addebitare la responsabilità ai fascisti per opportunità politica! Lo ascolto stranito mentre passeggiamo nei corridoi dell’università Statale. Cerco di contraddirlo, ma la mia opinione non lo interessa. La stessa persona alimenterà la propria carriera politica scrivendo un libro su Fausto e Iaio uccisi dai fascisti.

Torniamo al giorno nell’ufficio del preside. Uscito a mani vuote il funzionario di polizia, uno studente appartenente all’area dura dell’Autonomia Operaia si dice preoccupato perché Fausto teneva in casa “molti documenti” delle Brigate Rosse: se la polizia li avesse trovati ci sarebbero stati guai grossi. La rivelazione non mi colpisce in modo particolare.

In quelle settimane vado un paio di volte a Roma, anche per tenere un comizio (insieme ad altri molto più bravi) nell’unica grande manifestazione del Movimento durante il rapimento Moro.
La città è militarizzata, eppure vedo Bettino Craxi, da poco leader del Partito Socialista, seduto da solo al tavolino esterno di un bar di piazza Navona. Al vernissage di una mostra, invece, vedo irrompere il democristiano Amintore Fanfani (presidente del Senato e a lungo capo del governo) insieme alla scorta armata di mitra.
Craxi non ha nulla da temere essendo favorevole alla trattativa dello Stato con le Brigate Rosse per liberare Moro, mentre tutti gli altri capi politici, compreso Fanfani, sono contrari.

Alla fine del 1978, in via Montenevoso 8 viene scoperta la più importante base delle Brigate Rosse: il loro quartiere generale nazionale con il loro archivio. All’interno vengono arrestati tutti i capi dell’organizzazione, tranne Mario Moretti.
Fausto Tinelli abitava in via Montenevoso 9, esattamente nell’edificio dirimpettaio. Dalla camera di Fausto si vedono perfettamente le tre finestre del covo. Si vedono distintamente le persone che si muovono dentro e, grazie alla buona acustica, si sente anche qualcosa di quello che viene detto. Insomma, la finestra della cameretta di Fausto era a pochi metri dalle finestre dalla base nazionale delle Brigate rosse.

Il parlamentare di Democrazia Proletaria Luigi Cipriani, un omaccione che conosco bene, è il primo a mettere in relazione la base delle Brigate Rosse con l’omicidio, ma nessuno gli dà retta. Rivela che, durante i funerali dei due ragazzi, qualcuno ha scassinato la porta di casa di Fausto e ha rovistato all’interno, presumibilmente portando via qualcosa. E Cipriani, che morirà qualche anno dopo, non sa quello che so io: Fausto aveva in camera documenti delle Brigate Rosse.

Questa è solo una storia di quel lontano passato. Ce ne sarebbero tante altre.
Per esempio, un tizio mi dice che il giovane missino Sergio Ramelli era stato ucciso da alcuni dei nostri, quando facevano parte del gruppo di Avanguardia Operaia prima di confluire in Democrazia Proletaria. Mentre sto lavorando al progetto della prima edizione dell’agenda Smemoranda, vedo passare gli ex di Avanguardia Operaia: riporto quanto mi è stato detto, facendomi una bella risata per quella evidente idiozia. Mi guardano sbalorditi. Anni dopo scoprirò il perché dai giornali: l’avevano davvero ucciso loro.

Vengo circondato da alcuni fascisti e a fatica li convinco di non essere politicizzato, per fortuna non ho addosso nulal di compromettente perché mi perquisicono da cima a fondo. Alcune ore dopo, nella stessa via, viene accoltellato a morte un giovane meno fortunato di me.

Un’altra volta un mio compagno di classe mi chiede consiglio perché vogliono farlo partecipare a un attentato. Dico a quelli che lo hanno reclutato, alcuni compagni di scuola, di lasciarlo perdere facendo fallire l’attentato. Loro si limitano a scrivere “Sauro ti spunta un foro in bocca” sul muro della scuola (parodiando la pubblicità di un dentifricio: “Ti spunta un fiore in bocca”), e qualche tempo dopo uccidono il gioielliere Alberto Torreggiani per conto di Cesare Battisti, il futuro latitante internazionale.

Al mio primo anno di università le Brigate Rosse uccidono il professor Guido Galli sopra l’aula in cui mi trovo, mentre la professoressa continua la lezione come se niente fosse in mezzo agli spari e le urla. Si ferma un attimo per chiederci cosa fare, le propongo di interrompere la lezione.
Molto dopo tutti questi avvenimenti, che delineano un epoca, accade un fatto che sembra ricollegarsi a Fausto e Iaio.

Nel 1990, un muratore risistema il covo di via Montenevoso scoperto dai carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa dodici anni prima davanti alla casa di Fausto. Dietro un muro posticcio trova una grande quantità di documenti con le trascrizioni degli interrogatori di Aldo Moro, il leader della Democrazia Cristiana rapito.

Da questi documenti fino si scopre che non tutto quanto detto da Moro veniva reso pubblico dai comunicati delle Brigate Rosse. In particolare, si apprende per la prima volta che Moro aveva rivelato l’esistenza di Gladio, la struttura ultrasegreta della Nato che avrebbe dovuto organizzare la resistenza in caso d’invasione dell’Europa da parte dell’Unione Sovietica.

Rivelazione che sconvolge l’opinione pubblica: il piano Gladio prevedeva che tutti i dirigenti del Partito comunista italiano (all’epoca la maggiore formazione dell’opposizione) sarebbero stati arrestati in caso di invasione, e che la resistenza contro l’occupazione sarebbe stata gestita soprattutto da donne appositamente addestrate (insospettabili perché all’epoca non esistevano ancora le soldatesse).

Le Brigate Rosse, in passato, avevano reso noto anche quello specifico documento, togliendo però il cruciale passaggio su Gladio. Forse per rivenderlo all’Unione Sovietica, sicuramente interessata all’informazione. In passato qualcuno ha detto che dietro il rapimento Moro c’era la Cia, il servizio segreto americano. Però nel dossier del Kgb portato in occidente da Vasilij Nikitic Mitrokhin si dice che erano stati i sovietici a orchestrare la campagna di disinformazione per accusare la Cia.

Se invece c’era dietro il Kgb, non nel rapimento di Moro che è stata sicuramente un’idea delle Brigate Rosse, bensì nello sfruttamento “spionistico” della vicenda, si capisce perché si sia cercato di colpire chi stava indagando sulla morte di Fausto e Iaio: due ragazzi che forse sapevano troppo e potevano creare dei fastidi proprio quando Moro era stato appena rapito.
Uccidere simulando incidenti automobilistici è notoriamente la tecnica preferita dai servizi segreti.

Tra parentesi, dal momento che le Brigate Rosse hanno venduto le informazioni su Gladio ai sovietici (non si spiegherebbe altrimenti la loro cancellazione nei documenti resi pubblici), Aldo Moro doveva essere ucciso per forza, altrimenti avrebbe avvertito la Nato che quel piano cruciale non era più segreto.

SUPERMAN CATTURA HITLER E STALIN

Creato dallo sceneggiatore Jerry Siegel e dal disegnatore Joe Shuster, Superman venne pubblicato per la prima volta nel 1938 dalla casa editrice che prenderà il nome Dc Comics.

Superman aveva poca voglia di affrontare la Germania nazista, che in quegli anni insanguinava l'Europa, e avrebbe preferito che gli americani non partissero per la guerra. Alla fine, costretto dagli avvenimenti, partecipò al conflitto con scarso entusiasmo.

SUPERMAN CATTURA HITLER E STALIN

Nel fumetto qui sotto Superman blocca i soldati tedeschi sul confine francese, poi sfreccia a Berlino e, attraverso il tetto, entra nella dimora di Adolf Hitler.

SUPERMAN CATTURA HITLER E STALIN
Catturato il führer, Superman si dirige a Mosca per prendere Stalin.

Quindi porta entrambi i dittatori a Ginevra, nel palazzo della Società delle Nazioni (l’Onu dell’epoca).

SUPERMAN CATTURA HITLER E STALIN
Ai rappresentanti del mondo, Superman indica i suoi due prigionieri come responsabili degli sconvolgimenti europei che hanno portato alla Seconda guerra mondiale. Nell’ultima vignetta, un giudice della Società delle Nazioni condanna Hitler e Stalin, all'epoca ufficiosamente alleati, per la loro politica aggressiva.

SUPERMAN CATTURA HITLER E STALIN

La breve storia "fuori serie" di Superman viene pubblicata il 27 febbraio 1940 su “Look”, un periodico che si ispirava a “Life” (simile, quindi, al nostro vecchio “Epoca” e al tedesco “Stern”).

Lo strillo “Superman cattura Hitler e Stalin” si trova proprio sopra la foto di Rita Hayworth.

SUPERMAN CATTURA HITLER E STALIN

Hitler aveva appena invaso la parte occidentale della Polonia, Stalin quella orientale (dopo avere cercato vanamente di conquistare la Finlandia e occupato Estonia, Lettonia e Lituania).
Hitler e Stalin avevano fatto un patto segreto per spartirsi l’Europa Centrorientale, per questo alcuni fumetti americani dell'epoca rappresentano degli eserciti invasori di finzione come un misto di tedeschi e di sovietici: nell’episodio “La Spada Rossa” di Flash Gordon il capo dei militaristi ha un nome russo mentre la sua divisa è uguale a quelle tedesche.

Quando nel 1941 Hitler attacca Stalin, quest'ultimo chiede aiuto alle democrazie occidentali e alla fine della guerra avrà comunque occupato un bel pezzo di Europa Centrale.

SUPERMAN CATTURA HITLER E STALIN
Le SS risposero al breve episodio "How Superman would end the war" pubblicato da "Look" nel loro settimanale "Das Schwarze Korps", il 25 aprile 1940, con un articolo intitolato "Jerry Siegel all'attacco!".

L'articolo del giornale nazista inizia con un riferimento sprezzante alle origini ebraiche dello sceneggiatore: "... Jerry Siegel, un tizio intellettualmente e fisicamente circonciso che ha il suo quartier generale a New York, è l'inventore di una figura colorata con un aspetto impressionante, un corpo potente, e un costume da bagno rosso che gode della capacità di volare attraverso l'etere"; e conclude in tono moraleggiante: "... Invece di incoraggiare le autentiche virtù, semina odio e sospetto nei cuori dei suoi giovani lettori".

SUPERMAN CATTURA HITLER E STALIN
La foga delle SS contro Jerry Siegel non è molto giustificata, perché Superman è un isolazionista convinto, è cioè contrario alla partecipazione degli Stati Uniti alla Seconda guerra mondiale.
Infatti, nella breve storia pubblicata da "Look", Superman risolve tutto all'interno della Società delle Nazioni: allo stesso modo oggi chi non vuole intervenire militarmente per fermare una invasione invoca l'intervento diplomatico dell'Onu, ben sapendo che questo organismo non ha alcun potere reale.

Isolazionista non era solo lo sceneggiatore Jerry Siegel, lo erano anche il disegnatore Joe Shuster e l'editore Harry Donenfeld, pur essendo tutti ebrei, quindi appartenenti all'etnia ferocemente perseguitata da Hitler.

SUPERMAN CATTURA HITLER E STALIN
Infatti, nel primo e nel secondo numero di “Action Comics” del 1938, il comic book (albo a fumetti) dove era stato pubblicato per la prima volta, Superman se la prende con un senatore che tenta di coinvolgere gli Usa nella guerra solo per vendere armi all'esercito.
Per i pacifisti vendere armi, sia pure agli aggrediti per difendersi dall'aggressore, è abominevole.

SUPERMAN CATTURA HITLER E STALIN
Nel parlamento americano dell'epoca si svolgono veramente discussioni di questo genere, dato che Hitler aveva già iniziato a occupare territori europei e il Giappone militarista invadeva la grande ma debole Cina.
Quindi il fumetto prende una netta posizione politica, sostenendo che i politici interventisti non esprimono una loro sincera opinione, ma sono lobbisti dei venditori di armi.
Visto che a parole il senatore vuole combattere, Superman lo porta al fronte per fargli vivere di persona gli orrori della guerra.

SUPERMAN CATTURA HITLER E STALIN
Alla fine il senatore si trasforma in un pacifista convinto, come la maggioranza degli americani dell'epoca, i quali pensavano che intervenire in Europa avrebbe solo peggiorato la situazione creando le condizioni per altre guerre.

Naturalmente dopo l’attacco giapponese alla base militare delle Hawaii, gli Stati Uniti sono costretti a rinunciare al neutralismo. Pure Superman, da buon americano, finisce per sostenere la guerra. Le sue avventure al fronte sono poche, ma esempi di copertine "patriottiche" non mancano.
Qui lo vediamo a cavallo di una bomba: Superman anticipa il finale del film "Il dottor Stranamore"!

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Pure Goebbels, il ministro della propaganda nazista, ha l’onore di essere strattonato dall’Uomo d’Acciaio.

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Naturalmente gli scontri con Superman sono sempre impari.

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Tutto questo accade nelle copertine degli albi a fumetti, meno nelle pagine interne, dove di guerra se ne parla poco.

In una storia pubblicata a puntate nelle tavole domenicali dei quotidiani americani avviene una incursione di Superman a Berlino, dove Hitler in persona presenta se stesso e i suoi flaccidi ministri come poco credibili "superuomini ariani".

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Chi la guerra la fa dal primo numero del proprio albo è Capitan America della Marvel, casa editrice che all'epoca si chiamava Timely. Pure i due autori di Capitan America, Joe Simon e Jack Kirby (che in realtà si chiama Jacob Kurtzberg), e l'editore Martin Goodman sono ebrei. Però loro la pensano diversamente dai responsabili di Superman, perché non solo fanno menare Hitler da Capitan America quando gli Stati Uniti sono ancora neutrali, riempiono anche le avventure di supernemici nazisti, a partire dal terribile Teschio Rosso.

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Verso la fine della guerra, Alex Schomburg (ebreo pure lui) rappresenta per la prima volta nella copertina di un albo a fumetti un campo di sterminio nazista. Qui gli ebrei vengono infilati vivi nei forni mentre, in realtà, prima venivano uccisi con il gas. Tutte le vittime hanno un numero di riconoscimento, ma non tatuato sul braccio come nella realtà, bensì su un biglietto rosso legato al collo: le notizie sui lager erano ancora confuse e frammentarie.

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Il numero di riconoscimento permetteva ai tedeschi di gestire il flusso dei milioni di ebrei grazie agli elaboratori meccanici della Ibm, precursori dei computer. Le schede perforate necessarie alle operazioni, a causa della guerra che aveva tagliato i rapporti con gli Usa, provenivano dalla inconsapevole filiale svedese della Ibm (la Svezia era rimasta neutrale come la Svizzera).

Le vendite di Capitan America scendono parecchio alla fine della Seconda guerra mondiale, a causa dell'identificazione del personaggio con il conflitto, fino alla cessazione delle pubblicazioni.

Nel breve revival del 1954, scritto da Don Rico e disegnato da John Romita, i nuovi nemici sono i sovietici.

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Capitan America ritorna negli anni sessanta, diventando rapidamente un personaggio pacifista in sintonia con i tempi. Nel 1972, viene affiancato da un supereroe nero, Falcon. In una storia di Steve Englehart e Sal Buscema combatte il Capitano anticomunista degli anni cinquanta, che si rivela essere un… impostore.
Nel clima della contestazione studentesca non era considerato accettabile che l'antifascista Captain America un tempo avesse combattuto i sovietici.


Nei fumetti si intravede dunque il riflesso del dibattito politico dell'epoca in cui sono stati realizzati. Ieri come oggi.