TEX WILLER DERIVA DA DICK TRACY

PERCHÉ TEX WILLER DERIVA DA DICK TRACY

Dick Tracy, sbirro dalla pistola e dal pugno facili, nonché dalla mascella squadrata, nasce nel 1931 come striscia giornaliera dei quotidiani americani dalla penna di Chester Gould (1900-1985).

Dick Tracy sarà un fumetto di grande successo, ispirerà la creazione del fumetto di Batman e il cinema noir americano tra la fine degli anni quaranta e l’inizio dei cinquanta.

Essendo Dick Tracy uno dei fumetti più diffusi nell’America degli anni trenta, dovrebbe essere logico trovare le sue edizioni europee. Infatti, lo vediamo tradotto in francese già nel 1938, nelle pagine del leggendario settimanale “Spirou”.

Sicuramente, come era consuetudine, l’agenzia americana che lo pubblicava aveva mandato le strisce di Dick Tracy anche a varie case editrici italiane. Ma da noi bisognava fare i conti con il regime fascista, che per quanto riguarda il fumetto era condizionato dalla ferma opposizione dei pedagogisti barbogi. Per questi esimi studiosi già i balloon (ossia le nuvolette con i dialoghi dei personaggi) mettevano in agitazione i bimbi, figuriamoci le scene di violenza estremamente cruda di Dick Tracy. Così nessun editore ebbe il coraggio di pubblicarlo fino alla fine della Seconda guerra mondiale.

Però quelle strisce, non ancora tradotte dall’inglese, devono essere rimaste a lungo appoggiate sul tavolo di un certo editore milanese, il quale pensava: se questo personaggio riscuote tanto successo in America, perché, dopo un necessario ammorbidimento, non potrebbe averlo anche in Italia?

La casa editrice Vittoria, secondo la mia ipotesi, diede incarico al giornalista Vincenzo Baggioli di creare una versione casareccia di Dick Tracy per gli “Albi dell’Audacia” e nel 1938, su disegni di Carlo Cossio, nacque così Dick Fulmine.

Almeno sette indizi fanno ritenere che Dick Tracy sia confluito in Dick Fulmine.
1) Il nome di battesimo li accomuna: Dick.
2) Sia Dick Tracy sia Dick Fulmine sono agenti in borghese.
3) Entrambi appartengono al corpo della polizia di Chicago (in Dick Tracy la città non viene mai nominata nelle storie, ma è scritta nel copyright che ricorre in ogni striscia: “Chicago Tribune”).
4) Tutti e due hanno il mascellone squadrato.
5) Il fatto che Dick Fulmine esca lo stesso anno (il 1938) nel quale Dick Tracy viene pubblicato in Francia, lascia supporre che le strisce dell’eroe americano siano state presentate in quel periodo anche agli editori italiani.
6) Vincenzo Baggioli, sceneggiatore di Dick Fulmine, nel 1939 firma il rifacimento delle prime storie pubblicate in Italia di Superman (cambiando solo il nome in Ciclone), a dimostrazione della sua specializzazione nell’adattamento dei fumetti esteri.
7) Anche Carlo Cossio, disegnatore di Dick Fulmine, è specializzato nelle versioni nostrane dei personaggi americani: dopo Dick Tracy italianizza Superman, lasciandogli il nome Ciclone con il quale era conosciuto da noi prima della guerra. Anche in questo caso la corporatura del personaggio diventa talmente massiccia da non assomigliare più a quella dell’eroe originale. 

“Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova” diceva la giallista Agatha Christie.
Ragazzi, io di indizi ne ho trovati sette!

Dick Fulmine diventa subito il più popolare personaggio dei fumetti italiani, tanto che Gian Luigi Bonelli (1908-2001) ne fa un clone nel 1940 che chiama Furio Almirante. In questo caso la mia non è solo una ipotesi, ma un fatto evidente per ogni storico del fumetto. Il cognome Almirante rimanda a una famosa (all’epoca) compagnia di attori dalla quale discende Giorgio Almirante, il leader del neofascista Movimento sociale italiano.

Tex e Dick Tracy

Scrive Giada Gentili (chiunque sia questa signora): “Furio diventò ben presto il prototipo del castigamatti, insofferente verso i potenti, i furbi e i politicanti, portato a farsi giustizia da solo (e a farla per i più deboli), in un mondo in cui l’intrallazzo e la prepotenza si fanno costantemente beffe della giustizia”. Chiaramente Furio Almirante non agisce nell’Italia governata dall’ordine fascista, ma nei decadenti paesi democratici dominati da plutocrati senza scrupoli.

Continua la Gentili: “Ma è soprattutto nel dopoguerra che Bonelli, ormai completamente padrone del mezzo espressivo, infonde nel personaggio quelle caratteristiche psicologiche che, ulteriormente affinate, porteranno al successo pluridecennale di Tex”.

Abbiamo, quindi, i seguenti passaggi:
Dick Tracy / Dick Fulmine / Furio Almirante / Tex Willer.

Così, dalla Chicago trasformata in far west da gangster come Al Capone, si è tornati al far west vero e proprio. Dal poliziotto dai metodi spicci si è arrivati allo squadrista (senza camicia nera) che risolve i problemi a suon di pugni. Questa non vuole essere una critica gratuita a Gian Luigi Bonelli: anche se non ci piace ammetterlo, la grande maggioranza degli italiani era fascista. Fascisti convinti sono stati, per esempio, Hugo Pratt, Giorgio Bocca ed Eugenio Scalfari.

Curiosamente, Dick Tracy e Tex Willer vestono entrambi di giallo e indossano il cappello

 

NEMBO KID ERA IL NOME DI CAPITAN MARVEL?


NEMBO KID ERA IL NOME DI CAPITAN MARVEL?

L’illustrazione di Capitan Marvel qui sotto realizzata da Alex Toth sembra pensata apposta per questo articolo, dato che svela la vera identità di Nembo Kid grazie alla presenza della nube (=nembo).

NEMBO KID ERA IL NOME DI CAPITAN MARVEL?Superman viene pubblicato per la prima volta in Italia un anno dopo l’esordio del suo comic book in America, nel 1939 (quindi in epoca fascista), con il nome di Ciclone.
Dopo qualche timido tentativo alla fine della guerra, i supereroi americani vengono definitivamente introdotti solo nel 1954 dalla Mondadori, attraverso il settimanale Albi del Falco / Nembo Kid (alias Superman senza la “esse” sul petto).

Secondo i ricordi dei redattori della Dc Comics, la Mondadori temeva che il nome Superman potesse essere collegato all’Übermensch del filosofo Friedrich Nietzsche, tradotto a quei tempi in “superuomo” (mentre oggi si preferisce “oltreuomo”).
Anche se Adolf Hitler non aveva una particolare venerazione per Nietzsche, altri dirigenti nazisti lo consideravano un precursore e per questo usarono la definizione di superuomo per indicare l’ideale “ariano”.

NEMBO KID ERA IL NOME DI CAPITAN MARVEL?
Lo sceneggiatore Jerry Siegel e il disegnatore Joe Shuster, creatori di Superman, erano ebrei: perché avevano scelto proprio quel nome per il loro personaggio proprio negli anni trenta, quando Hitler era al potere con i suoi “superuomini”?
Probabilmente non ci avevano neppure pensato quando avevano rubato il soprannome di Doc Savage, il più importante eroe delle pulp (riviste di narrativa popolare) in voga in quegli anni.
Superman ha copiato tanti di quegli elementi a Doc Savage, come la “fortezza della solitudine” nell’Artide, che sarà il caso di parlarne un giorno a parte.

NEMBO KID ERA IL NOME DI CAPITAN MARVEL?
Rimane il fatto che il nome Nembo Kid non c’entra niente con Superman. Tutti noi, una volta nella vita, abbiamo fatto questa ovvia constatazione. Perché “nembo”, cioè nuvola? Perché “kid”, cioè ragazzino? Superman è un uomo maturo (man non kid) ben poco interessato al vapore acqueo.

Cerchiamo allora di entrare nella mente dei dirigenti della Mondadori dell’epoca che, dopo Topolino, volevano proporre i fumetti di un altro famoso personaggio americano. La scelta doveva sicuramente cadere sul fumetto più venduto in America. Superman?… no, Capitan Marvel!

Superman era nato nel 1938 e aveva portato al successo gli appena nati comic book (albi a fumetti), grazie alle decine di imitazioni che seguirono. Anche Capitan Marvel, uscito nel 1940, era nell’intenzione dell’editore una semplice imitazione di Superman. Lo sceneggiatore Bill Parker e il disegnatore C.C. Beck, però, ne fecero un personaggio del tutto originale.

Uno dei punti di forza di Capitan Marvel è il fatto di essere, nella sua identità segreta… un bambino. Il piccolo Billy Batson, gridando la parola magica “Shazam!”, si trasforma in un adulto muscoloso e superpotente.
Molti giovani lettori ne furono impressionati e iniziarono a seguire le sue avventure, forse più topolinesche che supereroiche. Tra di loro c’era la futura leggenda del rock Elvis Presley, che a Capitan Marvel è finito pure per somigliare, ciuffo compreso.

Capitan Marvel vendeva così bene che uscirono diverse serie di albi con le sue avventure, la principale divenne persino quattordicinale: fatto unico nel mercato dei comic book, i quali avevano e hanno tutti periodicità mensile (o bimestrale).

A un certo punto la Dc Comics, casa editrice di Superman, denunciò per plagio la Fawcett, editrice di Capitan Marvel, e la causa andò avanti per anni.

NEMBO KID ERA IL NOME DI CAPITAN MARVEL?

Per la Mondadori era quindi ovvio puntare su Capitan Marvel, il personaggio a fumetti più venduto d’America. Il nome Capitan Marvel non suona bene in italiano, anche perché da noi la parola “capitano” viene intesa quasi unicamente come grado militare: non ha le sfumature più generiche ancora presenti nell’inglese (però anche nella nostra lingua il leader di una squadra di calcio viene chiamato capitano).

La scelta di chiamarlo Nembo Kid appare scontata: la nuvoletta (il “nembo”) è ricorrente negli albi di Capitan Marvelm perché da essa scaturisce il fulmine che trasforma il bambino in supereroe. Così come “kid”, cioè bambino, è il giovanissimo Billy.

NEMBO KID ERA IL NOME DI CAPITAN MARVEL?
Agli inizi degli anni cinquanta i fumetti americani erano un po’ in crisi, in particolare quelli con i supereroi avevano chiuso quasi tutti.
Facciamo un po’ di storia.

I primi comic book degli anni trenta avevano 64 pagine e costavano 10 centesimi. Nella seconda metà degli anni quaranta, per mantenere il prezzo psicologico di 10 centesimi, gli albi scesero a 48 pagine a causa dell’inflazione. All’inizio degli anni cinquanta, sempre per venderli a 10 centesimi, le pagine si ridussero a 32.
Gli episodi di Capitan Marvel, già brevi nelle loro 12 pagine iniziali, vennero accorciati a 8 per poter presentare sempre molto storie in ogni albo.

Avendo io sceneggiato diversi episodi dei Masters of the Universe di 8 pagine mi rendo conto che in uno spazio così esiguo è quasi impossibile realizzare un fumetto avventuroso. Si può benissimo fare un fumetto comico anche con meno pagine, ma uno avventuroso mica tanto. L’avventura ha bisogno di tempi più lunghi (si vedano i fumetti della Bonelli). Così Capitan Marvel, Batman e tutti gli altri eroi avventurosi ridotti a 8 pagine declinarono vistosamente.

Si affermò, invece, il genere delle storie brevi autoconclusive con il colpo di scena finale, come quelle della Ec Comics, e le storie avventurose lunghe una ventina di pagine, come quelle dei paperi di Carl Barks.
A questo punto, con le vendite in discesa, la casa editrice Fawcett decise di chiudere Capitan Marvel anche perché l’ultima sentenza era stata a favore della Dc: non valeva la pena trascinare ancora la causa nei tribunali.

Gli albi di Capitan Marvek cessano le pubblicazioni nel 1953. In Inghilterra, dove aveva molto successo, lo sostituirono con un clone locale, Marvelman (diventato Miracleman quando recentemente l’hanno reimportato in America). La Mondadori, per potere uscire l’anno successivo con un supereroe, dovette quindi orientarsi su Superman, dandogli il nome pensato in origine per Capitan Marvel.

Senza saperlo, la Mondandori pubblicò comunque una sorta di Capitan Marvel, perché lo sceneggiatore principale di questo personaggio, Otto Binder, ne portò la verve fantastica negli albi di Superman. Il serioso eroe della Dc Comics, in breve, fu circondato da una Supergirl, dalla kriptonite rossa e oro, e da tante altre allegre trovate alla Capitan Marvel.
L’operazione editoriale in Italia fu un successo: sfogliando i certificati diffusionali dell’epoca, ho visto che il settimanale di Nembo Kid vendeva più di 100mila copie.

Per verificare l’ipotesi di Capitan Marvel-Nembo Kid-Superman avevo chiesto alla Mondadori di poter dare un’occhiata alla corrispondenza estera della casa editrice dei primi anni cinquanta, ma manco mi hanno risposto.
Quelle vecchie carte probabilmente non si trovano più alla Mondadori: saranno conservate in qualche centro culturale, sempre che non siano andate disperse in un trasloco.

 

Era il nome di Capitan Marvel?… forse no!

L’amico Roberto Giovanni, dopo aver letto questo articolo, ha espresso la propria opinione.
“L’episodio del primo numero degli Albi del Falco è ntitolato “La meteora di fuoco”, mentre quello originale della versione americana (su Action Comics n. 158) è “The kid from Krypton”: “Il ragazzino di Krypton”, ovvero lo stesso Superman arrivato bambino sul nostro pianeta. E nell’ultima pagina dello stesso episodio Superman lancia un ultimo pezzo di meteora nello spazio, oltre una grande nuvola che fa da sfondo. Secondo me hanno preso da lì il nome di Nembo Kid”.

Potrebbe anche essere.

 

 

TINTIN E IL NAZISMO

I testi critici su Tintin offrono il meglio nella parte propriamente fumettistica, mentre sono piuttosto carenti in quella storica. Io, che non sono un grande esperto di Tintin, cercherò di descrivere l’atmosfera politica dell’Europa prima e durante l’occupazione nazista, per analizzare da questo punto di vista le scelte non proprio apprezzabili di Hergé, l’autore di questo personaggio.

Oggi i nazisti sono visti in chiave hollywoodiana. Per esempio, in una storia autoconclusiva a fumetti dell’americano Howard Chaykin, “The last time I saw Paris”, pubblicata nella serie “Solo” della Dc Comics, vediamo un nero americano che, nel 1940, si risveglia nella Parigi improvvisamente occupata dalle truppe tedesche. Il “negro” si dà alla fuga disperata perché i nazisti, essendo razzisti, lo farebbero fuori a prima vista.

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In realtà, i neri che vivevano nella Germania di Hitler non erano perseguitati. Venivano perseguitati “solo” gli ebrei e gli zingari. Inoltre, l’America nel 1940 era ancora neutrale e quindi i cittadini degli Stati Uniti nella Francia occupata dai tedeschi erano trattati con il dovuto rispetto. Direi, anzi, con la deferenza tipica degli europei nei confronti degli americani. Neppure un ebreo americano avrebbe dovuto temere per la propria sorte. Quando l’America entrò in guerra, gli ebrei americani vennero trattati dai tedeschi correttamente come gli altri prigionieri. Erano trattati peggio i tedeschi prigionieri degli americani. Questo non significa che i nazisti fossero sempre dei secondini “buoni”, perché con i prigionieri di guerra russi si comportavano da criminali con la scusa che Stalin non aveva sottoscritto la convenzione di Ginevra.

Per capire la posizione politica di Hergé, il creatore di Tintin, bisogna tenere conto del fatto che in Europa, prima dell’occupazione tedesca, ci sono almeno tre diversi “fascismi”.
C’è il fascismo di Mussolini: laico, ma che lascia alcuni spazi alle organizzazioni cattoliche.
C’è il nazismo di Hitler, ancora più laico, tanto che la chiesa cattolica e quella luterana a volte vengono maltrattate. Mentre in alcuni casi sono le chiese a vincere, per esempio quando si oppongono all’eutanasia voluta da Hitler per eliminare le persone affette da gravi disturbi mentali.
Infine c’è una sorta di fascismo “clerical-reazionario” che, negli anni trenta, prende il potere pacificamente in Austria e attraverso la guerra civile in Spagna. I clerical-reazionari sono molto attivi anche nei paesi francofoni (la Francia e il Belgio) sin dalla Rivoluzione Francese.

Per noi, questi “tre fascismi” sembrano quasi la stessa cosa: in realtà si detestano a vicenda. Mussolini, per dire, è l’unico capo di stato europeo a mandare le truppe al confine per fermare la Germania di Hitler durante il suo primo tentativo di conquista dell’Austria. Poi, da nemico di Hitler, Mussolini diventa suo amico nella speranza di guadagnarci qualcosa.

I clerical-reazionari austriaci odiano Hitler, anche perché devono contrastare le sue mire annessionistiche. Alla fine, però, Hitler conquista l’Austria, e pure il Belgio e la Francia. Questo provoca il passaggio dei clerical-reazionari nelle file degli ex nemici nazisti, così come in Italia i fascisti, almeno quelli che rimangono tali dopo la caduta del governo di Mussolini, accettano l’egemonia nazista nella Repubblica Sociale.

La posizione di Hergé va vista in questo contesto vario e mutevole. Nei primi anni trenta, Hergé fa parte del blocco clerical-reazionario, portandone nei fumetti le istanze politiche in maniera didascalica. Abbiamo così Tintin nel Paese dei Soviet, dove attacca il comunismo; Tintin in Congo, dove elogia il colonialismo più ottuso del mondo (quello belga); Tintin in America, dove identifica la società liberale con il gangsterismo. Gli stessi concetti si possono leggere negli articoli dei giornali clerical-reazionari. Hergé non lavora sotto dettatura, crede profondamente in questi ideali.

All’epoca, come gli altri clerical-reazionari, Hergé detesta il laicismo di Mussolini e, soprattutto, quello “quasi pagano” dei nazisti. I belgi francofoni, poi, odiano i tedeschi a prescindere: durante la Prima guerra mondiale gli invasori avevano fatto di tutto per alimentare la rivalità dei fiamminghi (cioè degli olandesi belgi) nei loro confronti. Il contrasto dei belgi valloni con Hitler si acuisce quando questi, ormai alleato di Mussolini, riesce a occupare la clerical-fascista Austria. I clerical-reazionari belgi, e quindi anche Hergé, sono più che mai antinazisti quando Hitler sta per minacciare pure la loro integrità nazionale, dopo quella austriaca.

I tedeschi il Belgio lo invadono davvero. A questo punto, come abbiamo già detto, molti clerical-reazionari passano dalla parte dei nazisti, fino a quel momento aborriti malgrado diverse affinità ideologiche. Tra questi opportunisti c’è lo stesso Hergé, il quale disegna Tintin per la nuova edizione nazista di “Le Soir”, il principale quotidiano belga. Non è vero, come dicono i suoi solerti difensori, che lo fa spinto dalla fame, perché Hergé è già famosissimo e troverebbe lavoro in qualsiasi testata a fumetti. Lo fa per ingordigia, perché “Le Soir” paga meglio degli altri. Ai tedeschi basta che i cittadini delle nazioni invase stiano tranquilli, non pretendono fedeltà ideologica. Ai danesi occupati permettono persino libere elezioni, dove vincono i partiti democratici. Nessuno, quindi, chiede a Hergé di realizzare opere filonaziste. E anche se uno glielo chiedesse, lui sarebbe libero di rifiutare. Questo nel Belgio con in tedeschi veri, non con quelli hollywoodiani, s’intende. Invece gli adoratori di Hergé, molto giustificazionisti verso le sue scelte filonaziste, lo presentano assurdamente in pericolo di vita come il “negro” di Chaykin.

Hergé, in realtà, ha scelto di trasformare Tintin in un piccolo nazista anche perché a un certo punto inizia a credere che Hitler sia “l’uomo della provvidenza”. Come tanti altri, è soggiogato dal nazismo nella sua fase trionfante. Anche perché il successo, di qualsiasi tipo sia, attira sempre frotte di ammiratori. Ma appena la vittoria finale tedesca si allontana, Hergé, proprio quando più ci sarebbe bisogno di lui per sostenere la causa nazista, lascia perdere qualsiasi riferimento politico nelle storie di Tintin. Filonazi forse, fesso no di sicuro.

La storia di Tintin che trasuda maggiormente di spirito collaborazionista è “La stella misteriosa”. Qui il personaggio di Hergé partecipa a una spedizione “scientifica” (in realtà prettamente politica) composta da uno svedese (gli svedesi sono ufficialmente neutrali ma commerciano solo con i tedeschi), uno spagnolo (la Spagna è controllata dal dittatore Franco), un tedesco, uno svizzero (la Svizzera, come la Svezia, è incatenata economicamente alla Germania) e un portoghese (anche il Portogallo è governato da un dittatore).

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Il loro avversario è un banchiere americano dalla faccia da ebreo e dal nome ebraico: Blumenstein nella prima edizione, diventato un innocuo Bohlwinkel nelle edizioni del dopoguerra.


La bandiera americana dei “cattivi” viene trasformata, nelle edizioni del dopoguerra, in una vessillo di fantasia.

L’antisemitismo è il peccato di gran lunga più grave di Hergé. Magari si può chiudere un occhio sul collaborazionismo (l’unico “reato” contestatogli alla fine della guerra), ma non sull’antisemitismo espresso proprio mentre gli ebrei vengono deportati e sterminati.


Qui sopra due ebrei cercano di lucrare sull’ipotetica apocalisse: naturalmente cancellati nelle edizioni del dopoguerra.

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Tanto per non dare adito a dubbi, nella loro missione Tintin e amici viaggiano su un aereo militare tedesco, l’Arado 196.

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Ciononostante, a mio parere, gli episodi di Tintin del “periodo filonazi” di Hergé sono i migliori. In particolare, amo la storia divisa in due parti de “Il segreto del Liocorno” e “Il tesoro di Rakam” trasformata recentemente in un mediocre film da Steven Spielberg.

La disillusione per il crollo dei regimi autoritari, e delle ideologie che li sostenevano, ha provocato sul lungo periodo una sorta di “depressione creativa” in Hergé: se il mondo non è salvabile, che motivo ha Tintin di esistere? Di conseguenza, con il tempo, Tintin abbassa le proprie aspettative: non si tratta quasi più di risolvere una situazione, ma di salvare la pelle lasciando le cose come stanno.

I FUMETTI ITALIANI ERANO I PIÙ VENDUTI DEL MONDO

 

I FUMETTI ITALIANI ERANO I PIÙ VENDUTI DEL MONDO

Negli anni settanta l’Italia era la nazione dove si vendevano più fumetti nel mondo. O almeno, nel mondo occidentale (il Giappone era il primo della classifica anche allora).

C’erano molti settimanali a fumetti, alcuni dei quali vendevano più di mezzo milione di copie. E tantissimi giornalini di seconda fila come questi, che pure se la cavavano bene vendendo sulle 50mila copie.

Si trattava perlopiù di fumetti mediocri, soprattutto quelli dei grandi editori che raggiungevano diffusioni maggiori solo grazie al basso prezzo di copertina. Il pubblico li comprava perché c’erano scarse occasioni di svago.
La televisione pubblica, l’unica esistente, aveva due canali che iniziavano a trasmettere nel tardo pomeriggio: per il resto della giornata c’era il monoscopio fisso.

Tra gli ultimi anni settanta e i primi anni ottanta, i bambini iniziarono a conoscere i cartoni animati giapponesi. I quali, come i fumetti di quel Paese, non avevano alcun intento “educativo”. Del resto non ha senso inserire l’insegnamento nei divertimenti, come già sosteneva il drammaturgo e pensatore Friedrich Schiller alla fine del settecento.
Da noi, però, imperversavano i pedagogisti barbogi, che già all’inizio degli anni quaranta erano provvisoriamente riusciti a far abolire le pericolose nuovolette dei fumetti.
Solo alla fine degli anni settanta il sociologo americano Neil Postman diede il contrordine ai pedagogisti: Ma lasciateli divertire in pace questi bambini!

Anche gli adulti, che seguivano testate vendutissime come “Intrepido”, alla fine preferirono i telefilm americani di migliore fattura rispetto ai fumetti nostrani scritti con lo stampino: le nuove reti commerciali, sorte alla fine degli anni settanta, iniziarono a trasmettere in continuazione i telefilm ignorati nei decenni precedenti dalla televisione di Stato.
In Giappone, invece, varietà e mancanza di imposizioni pedagogiche hanno permesso ai fumetti di vendere milioni e milioni di copie, anche nell’epoca dei tanti canali televisivi.

All’improvviso, nell’Italia dei primi anni ottanta, le edicole si svuotarono di fumetti mentre fino a poco prima ne erano letteralmente tappezzate, e ottimi autori rimasero disoccupati.
Non ci facevano caso i critici del fumetto, che pensavano a qualunque cosa salvo che al fumetto “popolare”. Erano entusiasti per il fiorire delle riviste “d’autore”, senza rendersi conto che erano potute nascere solo grazie alla massa di lettori educati al fumetto negli anni precedenti: ora che non c’era più un diffuso fumetto popolare, quelle riviste non potevano che finire male.

L’America aveva conosciuto una crisi simile, ma ci fu un uomo che reagì: Jim Shooter. Non ascoltando chi ripeteva che il fumetto era stato ucciso dai nuovi media, alla fine degli anni settanta Shooter cambiò le pessime abitudini consolidate e il fumetto tornò ad avere successo. Non solo i fumetti Marvel, ma, per emulazione, anche quelli della Dc Comics.
Naturalmente, dopo che aveva compiuto il miracolo, Shooter fu crocifisso e ancora oggi ci si dimentica di innalzare inni al Salvatore del fumetto americano.

Il boom del fumetto italiano degli anni settanta inizia nei sessanta. Cerco di ricostruirlo esaminando i dati delle agenzie di accertamento delle diffusioni dei giornali.
Queste agenzie sono incaricate di controllare il numero esatto dei giornali venduti dagli editori che ricevono inserzioni pubblicitarie. Quindi non sono mai state utilizzate dalla Bonelli, che tradizionalmente non vuole pagine di pubblicità. Come pure mancano i dati dei piccoli editori, perché non vendevano abbastanza per interessare i pubblicitari. Abbiamo, comunque, diverse testate a fumetti certificate.

Negli anni sessanta l’agenzia preposta a queste indagini era la lad, dalla metà dei settanta l’Ads (che continua a operare ancora oggi). Mentre nei primi anni settanta c’era una grande confusione, con società diverse.
I dati Iad sono conservati in una biblioteca di Torino: bisognerebbe passarci un bel po’ di tempo per trascrivere tutti i dati perché, a differenza della Ads, non faceva schede riassuntive annuali con tutte le testate. Quindi i dati Iad che darò, grazie alla gentilissima collaborazione della direzione della biblioteca, sono limitati e frammentari: aspettiamo che qualcuno faccia il lavoro grosso (magari un laureando per la propria tesi).

Mi sono concentrato soprattutto sul “Corriere dei Piccoli”, che dall’inizio degli anni sessanta comincia a essere meno spocchioso, abbandonando i “raffinati” parafumetti con le rime baciate e pubblicando qualcosa di più digeribile. Per quanto riguarda gli autori italiani, il Corrierino non riuscirà mai a presentare veri disegnatori di fumetti, con l’eccezione di Hugo Pratt.
Mario Uggeri è un caso significativo. Grande disegnatore di fumetti, come si può intuire nei suoi lavori degli anni cinquanta, nel corso degli anni sessanta diventa un accanito (quanto imbarazzante) ricalcatore di fotografie. Se per gli autori italiani c’è poco da fare, i fumetti francofoni aumentano sempre di più nelle pagine del “Corriere dei Piccoli” riuscendo a frenare il calo diffusionale causato dai fumetti in stile americano di “Topolino”.

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Ecco le copie vendute del “Corriere dei Piccoli”. Ciascun dato comprende il secondo semestre di un anno e il primo del successivo.

Corriere dei Piccoli
1962-1963: 272.174
1963-1964: 251.859
1964-1965: 255.514
1965-1966: 273.373
1966-1967: 247.900
1967-1968: 237.990
1968-1969: 238.480
1969-1970: 228.805
1970-1971: 225.014

“Il Giornalino” all’epoca viene venduto solo nelle parrocchie. Il raddoppio e più delle copie nel 1968 è dovuto all’arrivo dei bravi autori transfughi de “Il Vittorioso” in crisi, che ha modificato il nome in “Vitt”.

Il Commissario Spada di Gian Luigi Gonano e Gianni De Luca è il personaggio principale del Giornalino, e uno dei migliori fumetti italiani (altro che l’ermetismo di Crepax e Toppi!). Purtroppo, dopo Spada a De Luca commissioneranno solo fumetti privi di spessore.

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Il Giornalino
1964-1965: 80.328
1965-1966: 73.248
1966-1967: 73.330
1967-1968: 62.522
1968-1969: 159.786
1969-1970: 180.107
1970-1971: 185.488
1971-1972: 186.231

Quanto vendono i supereroi negli anni sessanta? Il settimanale Mondadori di Superman (chiamato Nembo Kid) va benone, il mensile a lui dedicato pure.

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Albi del Falco – Nembo Kid
1964-1965: 113.844

Superalbo Nembo Kid
1964-1965: 98.339

Sfogliando queste vecchie schede della Iad, noto casualmente che il settimanale d’informazione scollacciato e radical chic “Abc” nel 1971 vende ben 317.248 copie. Negli anni successivi, “Panorama” e “L’Espresso” rubarono la formula di “Abc” arrivando a vendere altrettanto e attirando un fottìo di pubblicità grazie a un’impostazione glamour. Così il graficamente grezzo “Abc” finisce per fallire.
In tempi recenti, “L’Espresso” e “Panorama” sono tornati a essere i cloni di “Time Magazine”, togliendo le modelle nude dalle copertine ed eliminando i temi “scabrosi”. Perdendo, di conseguenza, un fracco di copie.

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Arriviamo alla seconda metà degli anni settanta, con i dati più completi che la segreteria della sempre operativa Ads mi ha cortesemente fornito.

Cominciamo con i settimanali.

Albi di Topolino
1976 – 98.217
1977 – 72.880
1978 – 72.456
1979 – 63.113
1980 – 42.734

Questo giornalino con poche pagine vende sempre meno perché, ormai, i lettori si possono permettere pubblicazioni più corpose.

Albo Bliz / Albo Blitz
1978 – 244.098
1979 – 182.702
1980 – 180.605
1981 – 129.453
1982 – 111.379
1983 – 199.810
1984 – 294.837
1985 – 246.798
1986 – 153.667

Le copie calano dal 1980. Dal 1982 si trasforma in un settimanale giornalistico sempre più spinto. Il compianto Riccardo Schicchi, produttore di Moana Pozzi e di altre pornodive italiane, mi raccontava di avere iniziato la carriera lavorando massicciamente per questa pubblicazione.

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Candy Candy

1981 – 128.672
1982 – 129.893
1983 – 101.383
1984 – 74.313
1985 – 43.685

Giornalino per bambine, inizialmente con i fumetti originali giapponesi appositamente colorati, in seguito con materiale italiano.

Corriere dei Ragazzi / Corrier Boy / Boy Music
1976 – 95.713
1977 – 125.221
1978 – 156.133
1979 – 261.553
1980 – 254.548
1981 – 221.839
1982 – 218.198
1983 – 114.137

Il dato del 1976 deve intendersi riferito al “Corriere dei Ragazzi” (già “Corriere dei Piccoli”), perché solo alla fine dell’anno cambia testata in “Corrier Boy”. Dalle 225.000 copie del 1971 certificate dalla Iad (il direttore generale di allora, Mario Oriani, mi ha detto che l’anno dopo arrivò al record di 250.000) in pochi anni scende sotto le centomila. Questo probabilmente perché i migliori personaggi francofoni sono stati sostituiti da fumetti italiani piuttosto insipidi (salvo quelli umoristici, splendidi, ma a un certo punto eliminati). Molti lettori passano ai meno problematici “Lanciostory” e simili.
Il direttore della successiva versione di “Corrier Boy”, Raffaele D’Argenzio, riporta la rivista al successo con fumetti fin troppo popolari, passando così da un eccesso all’altro.

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I ladri Aristocratici di Alfredo Castelli e Ferdinando Tacconi (qui in edizione album francese) pubblicati dal “Corriere dei Ragazzi”.

La sensuale pellerossa Swea di Raffaele D’Argenzio e Nadir Quinto fa da ponte con il successivo “Corrier Boy”.

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Corriere dei Piccoli

1976 – 80.032
1977 – 75.594
1978 – 128.888
1979 – 108.601
1980 – 68.350
1981 – 68.701
1982 – 98.127
1983 – 108.289
1984 – 139.045
1985 – 153.777
1986 – 153.487

Questo giornalino, rinato da una costola del “Corriere dei Ragazzi”, cresce diffusionalmente pian piano. Nel 1980 c’è una flessione, ma dal 1982 avviene un recupero: cosa pubblica in quegli anni? Boh. Successivamente le vendite crollano.

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Il Giornalino

1976 – 135.620
1977 – 159.794
1978 – 169.250
1979 – 188.216
1980 – 182.747
1981 – 170.114
1982 – 172.871
1983 – 194.274
1984 – 210.535
1985 – 225.276
1986 – 209.775

Nel 1980 c’è una flessione del Giornalino, ma nel 1983 (in contemporanea con il concorrente “Corriere dei Piccoli”) avviene una nettissima risalita, della quale pure ignoro le ragioni. Anche qui, dopo, la flessione diventa continua.

Il Monello
1976 – 482.242!
1977 – 437.883
1978 – 402.474
1979 – 405.273
1980 – 366.286
1981 – 303.593
1982 – 280.632
1983 – 253.227
1984 – 231.992
1985 – 193.029
1986 – 150.786

Il Monello sopra le 400 mila copie: oggi un sogno irrealizzabile per una pubblicazione a fumetti!
Il settimanale della Universo perde copie a causa dei molti cloni nati a metà anni settanta: “Corrier Boy”, “Albo Bliz”, “Lanciostory”, “Skorpio” e altri ancora. Il vero declino inizia nel 1980.

Intrepido
1976 – 587.171!
1977 – 540.376
1978 – 489.347
1979 – 472.303
1980 – 405.027
1981 – 332.738
1982 – 328.969
1983 – 301.710
1984 – 307.050
1985 – 276.098
1986 – 226.455

“Intrepido” è il settimanale a fumetti più venduto dopo Topolino. Anche questo periodico della Universo perde copie a causa dei cloni nati a metà anni Settanta. Il netto declino comincia nel 1980.
Le cose peggiorarono notevolmente quando, per avvantaggiarsi della legge Spadolini che dava la carta gratis alle testate giornalistiche, Intrepido e Il Monello aumentarono a dismisura i redazionali (quando avevo iniziato a curarlo io, nel 1992, vendeva ormai 20mila copie scarse).

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In ogni numero di “Intrepido” c’è una illustrazione del grande Walter Molino.

Topolino
1976 – 750.482!
1977 – 692.962
1978 – 630.326
1979 – 632.020
1980 – 540.550
1981 – 504.246
1982 – 499.804
1983 – 496.977
1984 – 496.746
1985 – 461.270
1986 – 482.996

I cartoni animati giapponesi (Goldrake arriva in Italia il 4 aprile 1978) cambiano i gusti dei piccoli lettori e Topolino ne subisce le conseguenze.

Vediamo ora i mensili a fumetti.

Almanacco di Topolino / Mega Almanacco
1976 – 266.204
1977 – 238.393
1978 – 238.664
1979 – 224.026
1980 – 166.431
1981 – 138.806
1982 – 108.414
1983 – 81.844
1984 – 84.339
1985 – 176.980
1986 – 176.113

Una buona diffusione fino al 1980, quando per l’Almanacco inizia il declino.

Corto Maltese
1986 – 31.320

La riduzione del formato di Linus, avvenuta nel gennaio 1979, trova i consensi del pubblico.

Linus
1977 – 62.985
1978 – 56.449
1979 – 70.762
1980 – 69.141
1981 – 69.529
1982 – 53.823
1983 – 51.090
1984 – 64.547
1985 – 62.135
1986 – 60.870

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Un’idea della crisi del 1980 può essere data ancora meglio dal numero delle pubblicazioni a fumetti che chiudono i battenti, a partire da “Boy Music” (ex “Corrier Boy”).
Se non fossi pigro, sfoglierei i numeri della rivista “If”, che ho nell’armadio alle mie spalle, per contare le testate defunte negli elenchi che presentava trimestralmente. Decine di albi a fumetti che non comparivano nelle certificazioni Iad e Ads.

In questo periodo entrano in crisi irreversibile o chiudono definitivamente case editrici medie come l’Editoriale Corno (la mia preferita) e l’Editrice Cenisio. Altre, come Dardo, Bianconi/Metro, Edifumetto ed Ediperiodici, subiscono forti ridimensionamenti dai quali non si riavranno più.

 


QUANDO È NATO IL FUMETTO NON SI SA

Un fumetto, per essere definito tale, deve rappresentare un’azione in una sequenza di vignette e deve essere fornito di dialoghi all’interno delle nuvolette. Da secoli abbiamo esempi separati con l’uno o l’altro elemento, ma solo in tempi relativamente recenti questi si sono saldati dando vita, appunto, al fumetto. Vediamo come sono andate le cose.

Gli illustratori si sono spesso serviti della vignetta singola accompagnata da un testo. A volte, il testo corrispondeva ai dialoghi dei personaggi rappresentati. In questi casi, veniva scritto in un “contenitore” all’interno dell’immagine.

QUANDO È NATO IL FUMETTO NON SI SA

“Certo che è bella, per Giove!”, testo in greco all’interno di un cartiglio (mosaico del primo secolo avanti Cristo)

 

All’inizio questo spazio per il testo era a forma di cartiglio, cioè di una pergamena srotolata.

QUANDO È NATO IL FUMETTO NON SI SA

Cartigli (“fogli” srotolati con all’interno il dialogo del personaggio rappresentato) in una illustrazione del 1498

 

In seguito, un angolo del cartiglio è stato rivolto verso la bocca del personaggio che parla.

Re Luigi XIII e il cardinale Richelieu in una vignetta di inizio Seicento

 

Nel corso dei secoli, la pergamena si è lentamente smussata trasformandosi nella nuvoletta (o balloon) che conosciamo oggi.

QUANDO È NATO IL FUMETTO NON SI SA

In questa vignetta del 1770 il cartiglio è ormai irriconoscibile: siamo arrivati al balloon

 

In alternativa al cartiglio, con l’utilizzo del tabacco, arrivò la nuvoletta di fumo (da qui la parola italiana “fumetto”), che però non ebbe particolare successo.
Dal 1940 circa verrà usata solo per indicare i pensieri.

Nuvoletta di fumo al posto del cartiglio del 1805, in una illustrazione di James Gillray sui viaggi di Gulliver

 

Oltre alla vignetta singola, con o senza cartigli, i disegnatori avevano altre modalità espressive, come la rappresentazione di una storiella attraverso una semplice sequenza di vignette, a volte accompagnate da didascalie. Stranamente, come abbiamo detto, per secoli i disegnatori non hanno mai collegato la sequenza delle vignette con le nuvolette, se non in casi sporadici e privi di sviluppi.

Lo svizzero Rodolphe Töpffer (1799-1846) è stato l’autore che ha usato con maggiore consapevolezza quella che in futuro sarebbe stata definita tecnica fumettistica (sia pure con dialoghi privi di nuvolette).

QUANDO È NATO IL FUMETTO NON SI SA

Töpffer, il precursore del fumetto

 

Tra i precursori, un autore che, sia pure involontariamente, ha contribuito a porre le basi della nascita del fumetto c’è il tedesco Wilhelm Busch (1832-1908). Disegnatore, scrittore e poeta di valore, nel 1865 Busch crea Max e Moritz. Una coppia di bambini terribili che ne combinano di tutti i colori, in sequenze di vignette accompagnate da didascalie.

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Il successo di Max e Moritz è stato fenomenale. Il libro, continuamente ristampato fino al 1963, viene amato da generazioni di tedeschi. Adolf Hitler lo teneva sempre sul comodino: solo i cartoni animati di Topolino gli piacevano di più (e poi dicono che i fumetti non fanno male!).

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Gli scherzi terribili di Max e Moritz

 

La coppia di Max e Moritz in Germania è talmente “iconica” da essere stata utilizzata recentemente per presentare un’inchiesta sull’integrazione degli immigrati.

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Prima di arrivare alla nascita definitiva del fumetto, dobbiamo considerare le riviste satiriche, come “Puck”, che escono negli Stati Uniti durante l’ottocento. Vi lavorano artisti del calibro di Richard F. Outcalt e Frederick Burr Opper, i quali saranno tra i primi autori di fumetti.

Qui sotto una copertina di “Puck” disegnata da Opper, nella quale lo spilungone Zio Sam (gli Stati Uniti) battibecca con il grasso John Bull (la Gran Bretagna).

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Nell’ultimo decennio dell’ottocento, l’editore del “New York Journal”, William Randolph Hearst, e l’editore del “New York World”, Joseph Pulitzer (che darà il nome al famoso premio giornalistico), si domandano come sfruttare la nuova possibilità di stampare a colori gli inserti domenicali dei loro quotidiani. All’inizio provano a presentare le immagini di quadri famosi, ma il pubblico non ne sembra entusiasta.

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William Randolph Hearst, il primo tycoon dei media che ha cercato di imporsi come politico: senza successo

 

Hearst era un magnate della carta stampata, noto ancora oggi per il film “Quarto potere”, dove Orson Wells lo ritrae in maniera provocatoria. In effetti Hearst era un personaggio discutibile. Per esempio, attraverso una campagna di stampa contribuì a trascinare gli Stati Uniti in guerra contro la Spagna per rendere indipendente Cuba, l’ultima sua colonia americana.

Ecco un’immagine pubblicata dai quotidiani di Hearst per far ribollire il sangue dei propri lettori e prepararli così alla guerra: la polizia spagnola denuda una donna americana per cercarle addosso messaggi diretti ai rivoltosi cubani.

A un certo punto, nell’inserto domenicale a colori del proprio quotidiano, Hearst decide di pubblicare le vignette umoristiche. Altri giornali hanno la stessa idea, in particolare il “New York World” di Pulitzer. I disegnatori ingaggiati provengono da riviste satiriche come “Puck”, che in quel momento sono molto popolari.

In questi nuovi inserti domenicali, dal 1895 il disegnatore Richard Outcault presenta le tavole di un ragazzino dei bassifondi vestito di giallo: Mickey Dugan detto Yellow Kid, il ragazzino giallo. Per molto tempo si è ritenuto, a torto, che fosse proprio Yellow Kid il primo fumetto continuativo (tanto da dare il nome al premio della manifestazione fumettistica di Lucca). Invece non siamo ancora arrivati al fumetto vero e proprio, perché il personaggio viene presentato in grandi vignette con testi sparsi. Una tecnica vecchia di secoli.

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Nel 1897, il direttore della sezione a fumetti di Hearst, Rudolph Block, contatta un altro autore destinato a diventare celebre. Si tratta di Rudolph Dirks, un disegnatore nato in Germania. Block commissiona a Dirks un vero e proprio plagio dei Max e Moritz di Wilhelm Busch. (O forse di Peter e Paul, un’altra coppia di ragazzini ideata sempre da Busch per cavalcare il successo di Max e Moritz).

L’idea originaria potrebbe essere dello stesso Hearst, che segue da vicino il supplemento domenicale e i fumetti che vi verranno via via pubblicati (l’ultimo che approverà prima della morte sarà Beetle Bailey di Mort Walker), ed avendo frequentato le scuole in Germania di certo conosce Max e Moritz.
Comunque, le prime tavole di The Katzenjammer Kids (che da noi diventeranno Bibì e Bibò), pur essendo realizzate con una sequenza di vignette, sono ancora prive di nuvolette. Quindi neppure loro sono veri fumetti.

QUANDO È NATO IL FUMETTO NON SI SA

La prima tavola di Bibì e Bibò

 

Il look dei due piccoli immigrati tedeschi cambia nel tempo per diventare quello a noi noto. Alla fine compaiono anche le nuvolette, facendo di Bibì e Bibò una vera serie a fumetti: forse è stata la sequenza delle vignette, necessaria per mostrare gli scherzi delle due piccole pesti, a costringere Dirks a utilizzarle con continuità.

QUANDO È NATO IL FUMETTO NON SI SA
Quando è accaduto esattamente? Le copie superstiti dei supplementi domenicali di fine ottocento sono rare e disperse. Credo che nessuno le abbia viste tutte.

Un altro autore da segnalare tra i primi creatori di fumetti è Frederick Burr Opper, del quale abbiamo già visto una copertina per “Puck”. Si tratta dell’ideatore di Happy Hooligan, noto da noi con il nome di Fortunello.

QUANDO È NATO IL FUMETTO NON SI SA
Fortunello, pubblicato in Italia dal Corriere dei Piccoli, è stato portato in teatro dal grande Ettore Petrolini.

Nei primi anni del novecento la tecnica del fumetto è ormai ben distinta dalla produzione tradizionale degli illustratori umoristici, diventando un genere a parte.

(Alcuni sostengono che le sequenze di vignette senza nuvolette siano già fumetti. No, non lo sono propriamente. Phantom non è un supereroe perché è uscito alcuni anni prima di Superman, mentre Batman lo è per convenzione perché uscito dopo Superman. Lo stesso vale per le sequenze di vignette senza nuvolotte: prima del fumetto non erano fumetti, dopo la nascita del fumetto lo diventano per convenzione).

È giusto chiedersi chi sia stato il responsabile della definitiva creazione del fumetto, che unisce la sequenza delle vignette alle nuvolette. L’autore Dirks? Il direttore Block? L’editore Hearst? Tutti e tre sono legati in un modo o nell’altro alla Germania e, quindi, conoscitori delle opere di Busch. Da quale anno il fumetto ha cominciato a essere pubblicato senza interruzione?

Insomma, la domanda chiave è: chi è stato il primo a pubblicare fumetti definitivi (cioè composti da sequenze di vignette più nuvolette) in maniera permanente inducendo gli altri a imitarlo? Credo che, al momento, nessuno sappia rispondere con certezza.

Sarebbe auspicabile che un editore ristampasse tutte le prime sezioni a fumetti domenicali: essendo formate da sole 4 pagine, un volume con un’annata del “New York Journal” ne avrebbe 208.
Forse solo così potremo scoprire le autentiche origini del fumetto.